Dopo un incipit in cui vediamo il protagonista, trasandato e arrendevole, arrestato dalla polizia, i fatti retrocedono di quarant’anni, al 1973 quando André Bamberski è un dirigente che lavora in Marocco, dove vive con moglie e figlia. Ma il lavoro lo assorbe, così la moglie diventa facile preda di un affascinante medico tedesco (che oltre tutto ha salvato la vita di loro figlia, amica della sua, in un incidente). Il marito scopre il tradimento e perdona la moglie, decidono insieme di tornare in Francia. Ma niente è più come prima. Otto anni dopo il medico tedesco è il nuovo compagno dell’ex moglie, ma anche Bamberski ha una nuova compagna. Così è tranquillo nel lasciare che la figlia adolescente Kalinka e il figlio più piccolo passino le vacanze da mamma e fidanzato. Ma quando riceve la terribile telefonata che gli annuncia la morte improvvisa e inspiegabile della figlia tutto cambia. I suoi sospetti si dirigono sul medico: Bamberski cerca da quel momento di far riaprire in tutti i modi un caso chiuso troppo in fretta.

In un’ora e mezza, Vincent Garenq racconta la lunghissima odissea, realmente vissuta, da un uomo  la cui vita è distrutta da un enorme dolore ma che al tempo stesso riesce a consacrare all’impegno di stabilire cosa sia successo alla figlia (man mano emergono dettagli macabri sulla sua fine e inquietanti sulle indagini) e di assicurare il colpevole alla giustizia. Anche con metodi poco ortodossi. Nessuno sembra dargli una mano, soprattutto in Germania. Ma anche in Francia imbarazzi e questioni di opportunità sul fonte dei rapporti internazionali frenano molto. Eppure, l’uomo non molla e non si arrende, mai. A rischio di diventare pazzo.

Film simili rischiano di esaurire la loro forza nella storia, se il regista – sconosciuto in Italia – non ci aggiunge capacità di messa in scena e qualche guizzo. Non si tratta di tradire la storia ma di darle forza. Che però, onestamente, è già forte di suo. A dargli il giusto peso più che la regia di Garenq – comunque abbastanza pulita e coinvolgente – è soprattutto la prova, come al solito notevole, del grande Daniel Auteuil, gigante del cinema francese. E anche il tedesco Sebastian Koch (visto in tanti film, a cominciare da Le vite degli altri) regala la giusta ambiguità al suo personaggio. Ne viene fuori un onesto e sincero ritratto di un uomo costretto a imbarcarsi in una folle impresa, lunga trent’anni, da cui tutti cercano di dissuaderlo. Alcune scene sono meno ricche di pathos di quanto ci si aspetterebbe (la telefonata che annuncia la morte), ma nel complesso il film riesce ad avere la giusta temperatura emotiva per non evitare di essere un freddo j’accuse.

Antonio Autieri