Recentemente nominato ai David di Donatello, il film è il primo lungometraggio di Giorgio Diritti, documentarista che ha anche lavorato con registi come Ermanno Olmi e Pupi Avati. La particolarità del film risiede senza dubbio nella lingua: la storia si svolge in un piccolo borgo montano della Val Maira, in Piemonte, un luogo dove ancora si parla abitualmente l’Occitano, un’antica lingua neolatina presente in tutta la fascia costiera del Mediterraneo. Il film è interpretato dagli stessi abitanti (che hanno contribuito – anche economicamente – alla produzione) quindi parlato in italiano, e sottotitolato quando gli interpreti parlano invece in occitano o francese.

La storia è quella di Philippe Hérault, un francese che da insegnante è divenuto allevatore di capre e produttore di formaggio, in cerca di una casa nell’alta Val Maira per stabilirsi e proseguire la sua attività. Prima risiedeva nei Pirenei, ma da quando sono iniziati i lavori per una centrale nucleare, ha deciso di trasferirsi con la sua famiglia (moglie e tre figli piccoli) e cercare nuovi pascoli. Accolto con diffidenza dai pochi e anziani residenti del borgo, Philippe viene preso in simpatia da Fausto, un musicista di professione, e da Costanzo, il sindaco, che convince i suoi compaesani ad accogliere questa nuova famiglia come una risorsa, per un paese ormai spopolato e ridotto a località di villeggiatura estiva. Poco alla volta viene riadattata una casa con l’aiuto dei paesani e quando Philippe arriva una sera con la famiglia e il camion delle capre, trova tutto il paese ad accoglierlo con le torce accese e la tavola imbandita.

L’idillio però durerà poco, e il regista non si trattiene nel mostrare le grettezze e piccinerie degli abitanti, che – con rare eccezioni, come il giovane “matto del paese” – trovano occasione per lamentarsi di ogni cosa dando la colpa ai francesi: piccoli sconfinamenti del gregge, cacche di capre sulle strade, il baccano dei bambini che vengono giudicati sporchi e trasandati. Poco alla volta, solo l’handicappato rimarrà dalla loro parte. Ma, come dice il titolo, L’aura fait son vir, ovvero Il vento fa il suo giro, e le conseguenze di certe azioni colpiranno tutti.

Il male si annida ovunque, sembra (senza alcuna retorica) voler dire il film, e la vicinanza alla natura non mette al sicuro la gente dai propri limiti. Solo i più giovani, o chi ha ancora il cuore di un bambino (come appunto l’handicappato) è ancora capace di accoglienza, che è cosa ben diversa dalla tolleranza, come osserva anche il protagonista. Il che acuisce ancora maggiormente nello spettatore il contrasto tra le meschinità dell’uomo e la bellezza dei panorami o del cambiare delle stagioni in montagna, luoghi ed eventi girati con grande maestria, usando tanto bene la videocamera digitale da non far rimpiangere “lo splendore dei 35mm”.

Beppe Musicco