Dopo una serie di passaggi a Cannes, il grande regista giapponese Hirokazu Kore’eda (autore degli splendidi Father and Son e Little Sister) approdava al concorso di Venezia 2017, prima di tornare a Cannes nel 2018 dove ha vinto la Palma d’oro con Un affare di famiglia. Al Lido quell’anno aveva portato un film molto diverso dai suoi film, spesso ambientati in contesti di famiglia e basati sullo studio dei sentimenti e delle reazioni. Da Il terzo omicidio si è inizialmente spiazzati, con un’introduzione violenta su un brutale omicidio: un uomo uccide una persona in riva a un fiume e poi dà fuoco al cadavere. Arrestato, l’uomo che si chiama Misumi – reduce da trent’anni di carcere per un altro delitto – confessa subito. E rischia la pena di morte: con i suoi precedenti il caso sembra scontato; soprattutto, la confessione sembra blindare l’esito. Ma lo scaltro avvocato Tomoaki Shigemori (suo padre era il giudice che salvò trent’anni prima l’assassino dall’impiccagione), sa il fatto suo e punta a derubricare il delitto (non c’è stata rapina, come sembrava inizialmente) a un fatto per motivi personali (l’uomo era il suo ex datore di lavoro, che l’aveva licenziato), per “alleggerire” l’assassino e fargli avere “solo” l’ergastolo. L’uomo in carcere peraltro inizialmente non collabora, sembra assente, dice e non dice, anzi quando parla si contraddice spesso. E il movente non trapela. Fino poi ad accusare la moglie del morto di averlo assoldato, ma la cosa pare poco credibile. E quella figlia della vittima, che zoppica vistosamente, che legame aveva con l’omicida? E in che rapporti era con il padre?

Il terzo omicidio – miglior film dell’anno nel suo paese lo scorso anno, con 6 premi ai Japan Academy Awards 2018 tra cui miglior film, regia e sceneggiatura – è un giallo esistenziale oscuro e intricato, che inizialmente fatica a catturare l’attenzione dello spettatore; con uno stile meno universale dei precedenti grandi film dell’autore nipponico e con uno stile dimesso tra colori spenti e toni angoscianti (soprattutto nelle scene dei dialoghi avvocato/cliente in prigione) che possono inizialmente respingere. Ma la tensione cresce poi con il passare dei minuti, quando appare chiaro che la soluzione che sembrava evidente è troppo scontata per essere vera: chi entra nella storia con pazienza potrà, alla lunga, essere conquistato da questa storia complessa (a tratti complicata) ma vertiginosa, in cui temi come la giustizia e la verità possono far ricordare a molti Rashomon di Akira Kurosawa. Mentre a noi quel presunto assassino e reo confesso che forse non è, invece, colpevole ci ha ricordato un grande film italiano come Porte aperte di Gianni Amelio (e in quel caso il presunto omicida era Ennio Fantastichini, scomparso un anno fa). Ma sono temi universali, per cui sono da escludere legami diretti con queste o altre opere.

In ogni caso l’intrico di troppi misteri e troppe verità che si accavallano lasciano sempre più confuso l’avvocato – inizialmente interessato solo alla soluzione più “vantaggiosa”, non a quella più giusta – che si appassiona via via al caso. E se anche lo spettatore rischia di essere spiazzato da troppi cambi di prospettiva (anche quello che vede nelle ricostruzioni,  è realmente avvenuto oppure no?), qualcosa rimane di un film che proprio nel finale acquista il suo senso più emotivamente profondo,  tra una ricerca della verità cui non può rinunciare anche uno spregiudicato avvocato, i sentimenti reconditi di persone che non li mostrano, una vita che pareva sprecata e che invece può recuperare in extremis un significato.

Antonio Autieri