In una sezione del PCI, intitolata ad Antonio Gramsci, nella periferia romana si festeggia l’arrivo della luce stradale. Siamo nel 1956: il segretario, Ennio, è anche redattore de l’Unità; la moglie Vera fa la sarta; si accolgono i nuovi tesserati con domande che servono a far capire la serietà della scelta di campo. Ma è tutta brava gente, molto semplice e generosa, che accoglie con entusiasmo un circo ungherese (per la gioia dei bambini del quartiere) e rimarrà sconvolta dalla rivolta di Budapest e soprattutto dall’invasione dei carri armatici sovietici, che la spegneranno nel sangue.
In realtà quella che avete appena letto non è la trama de Il sol dell’avvenire, 14° film di Nanni Moretti (15° contando anche il bel documentario Santiago, Italia), ma del suo “film nel film” dal momento che il protagonista è il regista Giovanni (Moretti stesso). Peraltro al suo interno ci sono “tre piani” (come il titolo del precedente, deludente, film di Moretti) narrativi perché nel frattempo Giovanni, che sta scrivendo già il suo film successivo tratto da Il nuotatore di Cheever, sogna a occhi aperti il film «con tante canzoni italiane» che davvero vorrebbe prima o poi realizzare: e mentre lo pensa vediamo una giovane coppia, dal primo bacio alle successive vicende insieme, accompagnata da note celebri di Battiato, De Andrè, Tenco…
Il sol dell’avvenire sembra un catalogo delle ossessioni e dei tic di Moretti, che inizialmente sembra compiaciuto di citarsi più volte e di sottolineare le sue avversioni; invece, con il passare dei minuti il film diventa più malinconico e pessimista, sulla vita – il tempo che passa e le ferite che provoca – e sul cinema. Un film a tratti anche divertente che poi, dopo l’affondo più drammatico – prima la produzione che si blocca per mancanza di fondi, poi una volta ripartiti la difficile decisione sull’ultima scena da girare – svolta in un finale ottimista e sorridente, da non svelare; per sognare a occhi aperti un finale alternativo “alla Tarantino” consolatorio e nostalgico, oltre tutto con la presenza a sorpresa di attori visti nei suoi film precedenti (durante una parata circense sui Fori Imperiali). Tanto da sembrare un commiato o un testamento.
In realtà Moretti, alle soglie dei 70 anni, non ha alcuna intenzione di ritirarsi, anzi. Come dice il suo alter ego Giovanni (che poi è il suo vero nome) vorrebbe fare più film e non solo «ogni cinque anni» (stavolta ce l’ha fatta: Tre piani, uscito nel 2021, era stato girato nel 2019 prima della pandemia). Ma forse, come Giovanni, anche lui è attanagliato da dubbi sul pubblico: sarà interessato a una storia che parla dei fatti d’Ungheria del 1956, del PCI e del suo comunismo “diverso” da quello sovietico, di Togliatti e di semplici militanti con dubbi sulla “linea”? La politica peraltro, se ha il suo peso, deve lasciar spazio all’amore – come continua a sottolineare l’attrice che interpreta Vera, peraltro battagliera e decisiva nelle lotte politiche della sezione – perché «questo è un film d’amore, con una visione pessimista dell’amore». E in effetti l’imprevista crisi del matrimonio, non vista da un uomo troppo pieno di sé per capire quanto soffra la moglie che da quarant’anni sta con lui (e gli ha prodotto tutti i film), gli apre gli occhi anche su quanti considerino “pesante” stare vicino a lui (autocritica non nuova per Moretti: pensiamo a Mia madre dove l’alter ego era Margherita Buy, che interpretava una regista stile Nanni “al femminile” e che stavolta interpreta sua moglie), mentre dalla figlia arriva un altro choc quando presenta ai genitori il suo fidanzato. Oppure è un film «sulla fine di tutto», come dice una coproduttrice coreana, visto il finale tragico previsto in sceneggiatura?
Se il meglio del cinema di Moretti è lontano nel tempo – i decenni tra gli anni 70 e i 90 o poco più in là, da Ecce bombo a La stanza del figlio – il regista romano è sempre energico e battagliero: i suoi bersagli stavolta non sono politici, nonostante il comunismo anni 50 sullo sfondo, ma cinematografici, dalla potente Netflix a chi fa un uso compiaciuto della violenza, anche se le gag sono stantie e certe tirate didascaliche e tirate per le lunghe. Ma c’è anche molta autocritica o forse riflessione malinconica su com’è cambiato il rapporto del pubblico con il Cinema. I dialoghi in genere, scritti da Moretti insieme alle sceneggiatrici Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Velia Santella, fanno però rimpiangere i film “autarchici” scritti da solo (o con Sandro Petraglia); anche se il peggio sono i camei forzatissimi di Renzo Piano, Corrado Augias e Chiara Valerio. Se l’affettuosa rievocazione del PCI esalta tanti nostalgici (non solo di quell’ideologia ma di un passato che non torna, anche per il Cinema del tempo che fu quando La vita era più dolce), d’altro canto appesantisce il film come tutte le prese di posizione puramente verbali, troppo statiche. Mentre le cose migliori – più cinematografiche – arrivano invece da guizzi sparsi, tra echi felliniani e proprio alcune scene musicali, o con la coppia di giovani innamorati in cui spicca la brava Blu Yoshimi; in un film che ha tanti attori di grande livello (ma purtroppo non Moretti, sempre più impacciato nella recitazione), a cominciare dalla già citata Margherita Buy alla “coppia comunista” Silvio Orlando–Barbora Bobulova, fino al francese Mathieu Amalric spiritoso nella parte del produttore cialtrone o al grande Jerzy Stuhr, attore polacco caro ai connazionali Zanussi e Kieslowski, peraltro citato in una scena del film. Quanto al “sol dell’avvenire”, è curioso che nel 1989 era di cartapesta e veniva sbeffeggiato da un bambino irriverente – Michele Apicella, da piccolo – nel finale di un film (Palombella rossa) che diede il via alla crisi del PCI. Decenni dopo, prevale il sogno illusorio che la Storia potesse andare da un’altra parte. Con troppi “se” che dimenticano troppe cose.
Antonio Autieri
Clicca qui per rimanere aggiornato sulle nuove uscite al cinema
Clicca qui per iscriverti alla newsletter di Sentieri del cinema