Tratto dal romanzo omonimo di Sebastian Barry, il film di Jim Sheridan alterna due piani di racconto: ai giorni nostri un’anziana donna di nome Rose biascica con apparente ossessione e scarsa lucidità il suo nome e la frase «Non ho ucciso mio figlio»; ma l’aria allucinata non depone a suo favore. Lei però pensa costantemente a quando, 40 anni prima, era una giovane ragazza orfana che abbandonò Belfast sotto i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale per tornare al paese natio, per lavorare nel negozio di una zia. Timida e riservata, e protestante circondata da cattolici, però accende i cuori di molti uomini: il gentile e aitante Michael, che però si sta per arruolare nell’esercito del Regno Unito ed è quindi considerato un traditore dai cattolici repubblicani; un cattolico buono ma goffo; soprattutto, un prete ambiguo che le sta continuamente intorno (e scaccia i pretendenti). In segreto Rose sposa Michael, impegnato in guerra. Nascerà un figlio, ma la loro storia è destinata a finire in tragedia. E quel figlio – che le malelingue sostengano sia del prete – l’ha ucciso lei, come la accusano? O le è stato portato via? Bombardata da elettrochoc e chiusa in manicomio, Rose ha ricordi annebbiati ma ha tenuto pezzi di diario tra le pagine di una Bibbia. Nel presente, un medico viene chiamato per visitarla prima che venga trasferita in un’altra struttura. Ma il dottore Grene si appassiona al caso e scopre man mano risvolti inediti…
Jim Sheridan, che fu grande con i suoi primi film (in un decennio scarso, dal 1989 al 1997, inanellò Il mio piede sinistro, Il campo, Nel nome del padre e The Boxer), non ha avuto poi una carriera all’altezza di quegli inizi folgoranti, molto centrati sulla sua Irlanda e sui conflitti che hanno insanguinata il nord del paese. Qui aveva un ottimo cast, con la grande Vanessa Redgrave a interpretare Rose da anziana e Mara Rooney da giovane (ma c’è qui è un primo scivolone: le due attrici sono diversissime sotto tutti i punti di vista, dall’altezza ai lineamenti alla grinta) e un misurato Eric Bana nei panni del dottore che cerca di studiare il caso della donna; ma anche un altrettanto calibrato Jack Reynor in quelli dell’aviatore che Rose sposerà. Ma la storia, che pure avrebbe elementi di “mistery” interessante (anche per una fotografia che rende cupi anche i bei paesaggi irlandesi e ambigui i ricordi dei flashback, tanto da chiedersi sempre se sono fatti realmente avvenuti), prende presto la via della solita tirata anticattolica, con suore-infermiere bigotte e aguzzine e un prete laido e ambiguo, giovane e col portamento da attore hollywoodiano, che prima insidia la ragazza, poi fa rissa con chi le si avvicina, infine la rovinerà quando viene respinto definitivamente (farà mettere e referto dell’ospedale la tendenza alla “ninfomania” della ragazza). Il tutto con una storia non solo manichea (con personaggi risibili, come il capo dei fanatici cattolici che la perseguitano) come spesso avviene in questo genere di film, ma povera dal punto di vista narrativo (quante scene frettolose), della caratterizzazione dei personaggi, della qualità dei dialoghi; e molto pasticciata nei suoi accadimenti, da melodramma di quart’ordine. Nell’ultima parte tutto diventa ancora più confuso, e anche noioso. Ma, colpa grave per un thriller “esistenziale”, la soluzione si intuisce ben prima che la matassa si dipani. E non è mai un bel segno. Mai però come il finale, che dovrebbe costituire il culmine emotivo e si spegne invece malamente, con un segreto – che tutti hanno, appunto, già capito da un po’ – svelato da un biglietto in una scatola aperta tardivamente, che liquida in poche parole una verità sconvolgente. Con il risultato di suscitare irritato sarcasmo al posto della commozione prevista. Verrebbe da pensare che Sheridan – peraltro entrato in corsa sul progetto, in cui anche molti degli attori non era originariamente quelli previsti – sia solo l’omonimo di quel regista apprezzato un tempo. O comunque da rimpiangerne il prematuro declino.
Antonio Autieri