Sul finire del ‘700, in una sperduta isola della Bretagna, la pittrice Marianne giunge in una dimora solitaria per ritrarre Héloïse, una giovane donna promessa a un nobile milanese al posto della sorella maggiore, morta pochi mesi prima. Qualora il dipinto dovesse soddisfare le aspettative del promesso sposo, Héloïse e sua madre si trasferiranno in Italia per dare luogo all’unione dei due giovani. Ma la donna rifiuta il matrimonio, così Marianne dovrà camuffare la sua vera identità, fingendo di essere la sua dama di compagnia e lavorando al ritratto in segreto.

Di fronte alla responsabilità di una storia da raccontare un autore ha sempre un certo margine di libertà, e nel risultato delle sue scelte passa tutta l’intenzione e l’impatto che quella narrazione ha avuto su colui che la mette in scena. Nel legame con la storia c’è dunque già in qualche modo l’atto del racconto, e se questo è vero sul piano immediatamente letterario, lo sarà ancora di più su quello visivo e pittorico, dove l’esperienza dello sguardo – dato e ricevuto – si trasforma in gesti che agiscono sulla tela per dare consistenza pittorica a quella dimensione di vita nella quale l’autore stesso è immerso. Céline Sciamma sembra dominare alla perfezione le complesse dinamiche dell’estetica del racconto quando sceglie di mettere in scena con occhio delicatissimo la storia di un rapporto che vive già dentro e oltre queste stesse dinamiche: Marianne (Noémie Merlant) dipinge, il suo occhio è allenato a penetrare l’essenza di ciò che le sta intorno e la sua stessa tecnica si mette al servizio del soggetto che sta ritraendo. Le regole, le idee e le convenzioni della pittura stanno dalla sua parte, la sua mano domina perfettamente la materia che sta plasmando e sin dalle primissime scene sono i suoi gesti a raccontarci di lei ancor prima delle sue parole. Non si fa scrupolo a lanciarsi in acqua per recuperare i suoi dipinti caduti in mare durante la traversata in barca, e una volta raggiunta la casa che la ospiterà non avrà alcun timore di esplorare, indagare  e decifrare gli spazi e gli sguardi che le si presenteranno davanti: la pittrice vuole conoscere il suo soggetto ancor prima di vederlo, e nel suo essere insieme esaudita e negata è proprio questa rincorsa alla conoscenza dell’altro la vera cifra sulla quale la regista costruisce l’intera relazione tra le due protagoniste. Ma l’accesso alla dimensione del sapere non è tutto, perché nel costruire una famigliarità di rapporti sono innanzitutto le percezioni sensoriali, della vista e del tatto sopra ogni altra cosa a giocare un ruolo determinante. Se infatti Marianne si nega a Héloïse (Adèle Haenel) nascondendo la sua vera identità, quest’ultima avanza nella continua sottrazione del proprio sguardo al mondo, coprendosi il volto con un livore causato da quelle stesse convenzioni sociali che impediscono a una donna del tardo settecento di porre la propria firma su un dipinto, o di ritrarre nudi maschili in virtù di un’irrinunciabile – o presunta tale – femminile pudicizia. Uscita dal convento delle benedettine per volere della madre (Valeria Golino), la giovane donna è infatti incastrata in un matrimonio combinato con un uomo che non ha mai incontrato, mentre il suo desiderio di libertà vive nella ribellione a una condizione alla quale sembra impossibile sottrarsi. Incastonate nei propri piccoli mondi le due donne iniziano allora a ricorrersi, riducendo di passo in passo la loro distanza: le passeggiate a picco sulle scogliere della Bretagna vedono Marianne lottare per stare al passo di Héloïse, scrutarla hitchockianamente per non creare sospetti, per poi riprodurre in sua assenza le fattezze di un volto che la pittura non riesce mai a carpire del tutto.

La tecnica e la risolutezza dell’atto pittorico sono dunque insufficienti, ed è nella rottura delle regole tout court che si fa dunque strada l’idea dell’arte come poiesis, come costruzione e scoperta di sé con e nello sguardo dell’altro: una possibilità che la Sciamma con estrema delicatezza estende al rapporto amoroso, dicendoci in fin dei conti che nell’arte come in amore è l’esperienza dell’altro al quale concediamo di osservarci interamente e per quello che siamo a fare la differenza tra un capolavoro e un artefatto di mestiere. Gli occhi schivi e la distanza lasciano allora il posto a una sorta di percorso rituale, nel quale due sguardi che si incrociano attraverso il fuoco estivo, e due braccia che si sostengono su un percorso accidentato schiudono nuove prospettive di osservazione della realtà. Si dà così spazio a tutta quella dimensione del non detto che pian piano emerge per diventare esperienza, esattamente come il volto di Héloïse diventerà finalmente presenza, donata a Marianne e instillata infine nel suo ritratto. A fianco a questa raffinata struttura metaforica la regista costruisce un coltissimo apparato di riferimenti pittorici (Georges de La Tour), letterari (il mito di Orfeo e Euridice) e musicali (Vivaldi), che in un’intuizione di grande originalità vanno a suggerire con quale forza lo spazio della memoria possa essere strumento di sopravvivenza del soggetto e di rinnovamento delle esperienze passate: la drammaticità dell’offrirsi all’altro nelle vesti di mittente e insieme destinatario di un sguardo d’amore crea infatti un livello di affinità talmente profondo da garantire la resistenza di quel sentimento anche in assenza di una delle due parti.

E se il pathos di queste opere d’arte doppia ed eleva ad atto poetico la visceralità del rapporto tra le due, sarà la consapevolezza di un sacrificio necessario e scritto nel destino di entrambe ad aprire la possibilità di una nuova libertà, vissuta oltre i canoni e al di là delle strette maglie delle convenzioni sociali: quella di chi sa che sperimentare la mancanza è soltanto l’inizio della promessa di una presenza che si può scegliere di vivere poeticamente, per il tramite del ricordo e nella quotidianità delle piccole cose. E allora non ci sarà più neanche bisogno di incrociarli, quegli sguardi: la corrispondenza sarà immediata, il pensiero sarà già in qualche misterioso modo percezione di un corpo, l’arte che se ne fa tramite una calda compagnia verso un destino che si sa un po’ più lieto perché legato alla viva poesia di quella memoria.

Maria Letizia Cilea