Un Leone d’Oro molto discusso quello assegnato a Venezia 2003 all’affascinante opera prima di Zvyagintsev. Un Leone contestato per via dello scomodo rivale (Marco Bellocchio) che dopo i consensi ottenuti dalla critica si sentiva già vincitore del festival con Buongiorno, notte. Un Leone malinconico, dedicato al giovane protagonista Vladimir Garin morto nelle acque del lago dove è stato girato il film. La giuria veneziana ha premiato però il tono misterioso e mitico che permea la vicenda. Il rapporto così intimo (ma nello stesso tempo ancestrale) tra un padre mai visto e due figli ormai adolescenti.

Giocato sugli sguardi che i tre protagonisti si scambiano, il film si apre con la splendida sequenza del ritorno a casa del padre: i volti attoniti e speranzosi dei ragazzi mentre osservano l’uomo dormiente in tutta la fisicità del Cristo di Mantegna. E poi la gioia di ritrovare un padre, visto solo in una vecchia fotografia, che li porti a pescare per un fine settimana. L’orrore dell’essere sgridati, la tristezza nel sentirsi incompresi. E le domande: chi è quest’uomo? È veramente mio padre? Dove è stato per dieci anni? Perché è ritornato? Dall’altra parte c’è un padre che non sa più (o non ha mai saputo) essere padre. Difficoltà e incomprensioni accompagnano quest’uomo misterioso. Soltanto una fotografia ha mantenuto vivo il ricordo dei due ragazzi per tanti anni ma al termine del lungo viaggio non rimarrà loro neppure un’istantanea dell’uomo. Solo la mancanza.

Il film alterna momenti di grande impatto emotivo a lunghe sequenze di indagine in cui i protagonisti sono immersi nella desolata campagna russa. Meravigliosa la fotografia che affida all’acqua (evidente tributo ad Andrej Tarkovskij) il compito di unire realtà e immaginazione.