Siamo nell’VIII secolo avanti Cristo, e la storia – intrecciata al mito – è quella di Romolo e Remo, pastori nel basso Lazio in un’epoca agli albori della civiltà. Vediamo subito i due gemelli travolti dalla furia di un’inondazione con le loro pecore e rischiare di morire, ma salvarsi unendo le forze; poi essere catturati insieme ad altri compagni dagli uomini di Albalonga; quindi liberarsi portando via la sacerdotessa che protegge un fuoco considerato sacro. Romolo è moribondo, e il fratello fa di tutto per salvargli la vita. Remo diventa in fretta il riferimento della comunità di combattenti che si sta formando, guidando i suoi a conquistare un piccolo villaggio dopo aver ucciso i suoi difensori. Il suo potere è imposto col terrore e sembra sfidare persino gli dei. Quando la vestale sarà interpellata, vaticinerà che dei due fratelli uno solo è destinato a sopravvivere: ma anche quando tra i compagni qualcuno si chiede se Romolo non sia da sacrificare, Remo si oppone e difende il fratello.
Kolossal ambizioso e costoso (9 milioni, frutto anche di coproduttori internazionali), fuori scala da ogni punto di vista per gli standard consueti del cinema italiano, Il primo re potrebbe sembrare un’impresa al limite della follia; con attori costretti a sfidare l’acqua, il freddo, il fango e a impegnarsi in interpretazioni dove l’aspetto fisico (i numerosi, brutali scontri) conta parecchio. Ma l’impresa è a ogni livello, a partire dalla produzione – grazie al meglio dei collaboratori tecnici italiani – e dalla regia, anche per l’utilizzo di sequenze con luci naturali e uso limitato di effetti speciali. Al quarto film, dopo due opere poco riuscite (Un gioco da ragazze e Gli sfiorati) e il meritato successo con il bellissimo Veloce come il vento, tutto ci si poteva aspettare da Matteo Rovere fuorché questo film. Alzi infatti la mano chi pensava che, invece di cercare un’altra bella storia ricca di sentimento come quella che portò a 6 David di Donatello, si imbarcasse in un’operazione simile. Per Il primo re, il regista – che lo ha anche prodotto insieme a Rai Cinema – è partito da una complessa ricerca storica (le fonti: Plutarco, Tito Livio) e linguistica, anche grazie a esperti accademici, approdando alla scelta della “lingua originale”, ovvero un proto latino, e dei sottotitoli. Primo punto a favore: non solo la scelta “alla Mel Gibson” (l’aramaico per La passione di Cristo ma anche lo yucateco per Apocalypto) di una lingua morta e dei sottotitoli, ma anche di non usare un latino troppo “pulito” (come si sente in certi film sull’Antica Roma) che sarebbe risultato straniante e falso, bensì una lingua quasi incomprensibile, anche perché sussurrata o bofonchiata da uomini ancora allo stato semi-bestiale, tra sacrifici e superstizioni (anche per l’ambientazione e il contesto umano selvaggio, e per certe scene forti, viene spesso in mente Apocalypto, ma l’autore ha citato Revenant – Redivivo e Valhalla Rising come ispirazioni). E poi la fotografia cupa e notturna (grazie al lavoro dell’ottimo Daniele Ciprì), la brutalità e la violenza a tratti quasi insostenibile ma comprensibile, l’utilizzo degli attori in gran parte poco noti o poco riconoscibili, per non distogliere dal contesto ambientale che è quasi preminente rispetto alla storia stessa. Che pure è tutt’altro che poco significativa.
A emergere, sia come personaggio come interprete, è più Remo che Romolo; e anche questa è una scelta molto interessante. Alessandro Borghi, unica star nel cast, si conferma uno dei migliori attori italiani: la sua prova è fisica e carismatica nel ruolo dell’uomo che cerca di farsi re (e dio) e di imporre il suo comando a un gruppo di allevatori di pecore che difendono la propria vita da pericoli e nemici, promettendo loro una terra e un futuro nell’attraversare lande pericolose (e non solo per i nemici: per quegli uomini, ogni boscaglia poteva essere ricettacolo di spiriti maligni). Meno incisivo Alessio Lapice, che prende spazio nel finale ma come Romolo sembra fin troppo “timido” e meno credibile quando si erge a nuovo leader che usa altre e più lungimiranti logiche; anche se questo rafforza il personaggio di Remo, in cui ci sono echi di riflessioni sul potere e sull’uso della forza, del libero arbitrio e del rapporto con il destino e il divino (l’aspirante re vuole dominare anche su quella sfera, portando la sua sfida al cielo). Perfino la follia, quasi shakespeariana, del sovrano che pretende cieca obbedienza e timore da chi sta attorno a lui. Ma soprattutto dell’uomo che ama il fratello e che deve decidere se sacrificare tutto a quell’amore.
Spunti interessanti, anche se non risulteranno facilmente comprensibili a tutti; e così complessi che valutarne la profondità sarebbe operazione molto lunga. Sicuramente impegnativo e a tratti faticoso nell’alternanza di combattimenti violenti e di lunghi momenti cupi in cui l’azione rallenta (vederlo di sera potrebbe creare qualche problema ai meno motivati…), Il primo re è un film che potrà lasciare freddo chi non ama le sfide – anche per gli spettatori ne esistono, eccome – ma che suscita in noi ammirazione per le difficoltà già citate e per le sue qualità, visive e spettacolari, che superano alcune perplessità (ogni tanto fa capolino qualche frase che suona un po’ anacronistica, come «il potere si regge sulla paura»). Un grande film epico, operazione sconosciuta dalle nostre parti (se non in brutti b-movie), che non ha paura di rischiare sul terreno del colossale (che poteva sfociare nel ridicolo) nel raccontare l’epopea della nascita di un impero, quello di Roma, destinato a diffondersi per gran parte del mondo conosciuto e a durare a lungo. Il mito di due fratelli che si amano visceralmente e che il destino contrappone. Un’operazione da consigliare, anche se evidentemente non per tutti, e che rincuora: c’è ancora coraggio nel tanto bistrattato cinema italiano.
Antonio Autieri