L’inizio può far pensare di aver sbagliato sala: pur con un sottofondo caratterizzato da una classica canzone natalizia (l’insopportabile “Let it Snow”), vediamo profughi, senza tetto, migranti sui barconi. Persone che soffrono: cosa c’entrano con un film comico di Natale? Lo capiremo alla fine. Ma prima vediamo il parroco di un paesino, padre Valentino, organizzare il “casting” del presepe vivente (la sua ossessione, con cura maniacale per i dettagli “veri” e la credibilità dei personaggi); e il ladro Salvo, specializzato in furti di arte sacra e statuine religiose, ingannare la buona fede del sacerdote proponendosi come san Giuseppe, solo per intrufolarsi in chiesa e rubare una preziosa statuina di Gesù. Colto sul fatto e inseguito dal religioso in tonaca, Salvo scappa verso un canneto: i due, sotto un improvviso acquazzone si ritrovano misteriosamente nella Palestina dell’Anno Zero, in cui sta davvero per nascere Gesù. E intanto i pericoli per i due non mancheranno: tra zeloti ribelli, donne intraprendenti, mercanti assetati di denaro; e poi soldati romani, il temibile Erode, perfino una tigre. Salveranno la pelle e troveranno – prima di Erode – il bambino Gesù, Salvo e Valentino? E riusciranno a tornare indietro, ai giorni nostri, magari in tempo per il Natale?
Lo spunto di partenza di Il primo Natale è intrigante, anche se non originalissimo: di viaggi nel tempo il cinema ne ha sempre proposti parecchi, soprattutto da quando i mezzi economici o gli effetti speciali hanno liberato la fantasia degli sceneggiatori. Ma certo il modello, almeno italiano, più famoso e riconoscibile è Non ci resta che piangere (che usciva, proprio sotto Natale, esattamente 35 anni fa) anche per via della coppia di comici e registi (gli inarrivabili Roberto Benigni e Massimo Troisi) che anche lì dirigeva l’operazione. E colpisce la presa di posizione, detta a mo’ di battuta ma anche degna di plauso, di Salvo Ficarra e Valentino Picone: se in genere a Natale il cinema ha raccontato più il Babbo inventato da una nota bevanda che il Bambino nato duemila anni fa, loro avrebbero messo al centro il vero Natale, cioè «il compleanno di Gesù». Tutto ciò predispone positivamente chi la pensa allo stesso modo; e pure chi apprezza lo sforzo di cambiare registro (dopo alcuni film, più riusciti come L’ora legale o meno come Andiamo a quel paese, in cui stavano prendendo una piega un po’ moraleggiante), nonché quello produttivo di un film – girato tra Roma e il Marocco, con fotografia di Daniele Ciprì – che non è la solita commediola con situazioni trite e ritrite. Anche con il rischio di scherzare con il fuoco, rischiando sul terreno del sacro (Gesù) e del profano (Benigni & Troisi).
Detto questo, da due bravi comici come Ficarra & Picone – anche autori della sceneggiatura insieme a Nicola Guaglianone e Fabrizio Testini – ci si aspetta di ridere un po’. E invece sorprendentemente di risate stavolta ne strappano pochissime (più spesso mezzi sorrisi stiracchiati). Non ci si crede mai alla loro (dis)avventura: vero che i viaggi nel tempo poco credibili lo sono per forza di cose, ma noi per un’ora e mezza credevamo che – nel già citato classico di metà anni 80 – quei due fossero finiti nella Toscana del 1400 (quasi mille e cinque…). Qui vediamo il fuggitivo e l’ inseguitore che finiscono in un mondo evidentemente alieno (un deserto dove antichi romani inseguono prigionieri in fuga) e lo scambiano per una sacra rappresentazione altrui; poi, quando capiscono cos’è successo non si stupiscono di nulla, nemmeno che tutti parlino la stessa lingua (ma loro sono «due stranieri che vengono da molto lontano»); e nemmeno si lamentano troppo quando finiscono ai lavori forzati. Senza contare che i due simpatici comici non hanno proprio l’aspetto di due latin lover, ma – come altre volte in passato – fanno innamorare in fretta due avvenenti, e combattive, donne del luogo. Perfino la tigre – che allude ai leoni che a Roma mangiavano i cristiani – risulta fuori luogo. Per vivacizzare un po’, diciamo, Ficarra improvvisa alcune azioni alla James Bond o alla Mission: impossible – da ladruncolo tecnologicamente attrezzato – ed entrambi i due protagonisti si trovano coinvolti nelle scorribande da guerriglieri di un gruppo di zeloti. Scene vivaci che però distolgono dal cuore della vicenda, per lunghi tratti abbastanza confusa. E in certi momenti fin troppo leggerina e farsesca (la tombola da Erode…).
Certo, non è il film cui forse ha senso fare le pulci. E veder recitare un grande attore come Massimo Popolizio (il migliore in campo, nei panni di Erode) è sempre un piacere, mentre Ficarra e Picone fanno simpatia anche quando non danno il meglio di sé; regalando poi la scena migliore quando si prestano emozionati a dare una mano a quella santa famiglia finalmente trovata, e diversa da come se la immaginavano. Ma viene da pensare che l’occasione sia stata sfruttata solo parzialmente, e solo per ricadere – comunque – nello stereotipo che a Natale si diventa (quasi) tutti più buoni: pure un ladro che si redime. Poi è chiaro che il fatto che diseredati e oppressi trovino un posto dove star bene renda tutti felici: ma l’impressione è che il Bambino sia stato usato un po’ come un pretesto, per strizzare l’occhio al pubblico sull’attualità e perché il grosso del lavoro “benefico” lo fanno i due simpatici e improbabili eroi («i miracoli li fanno gli uomini» suggerisce Maria), che a un certo punto prendono in pratica il ruolo, prima a corte e poi a Betlemme, dei re magi (doni esclusi). Due eroi per caso, che si trovano anche ad avvisare Giuseppe di portar via Maria e Gesù, per scappare da Erode, e poi a intervenire ulteriormente per cambiare il corso della Storia – alla Tarantino – evitando una nota e orribile strage.
Antonio Autieri