In un locale per gay, un giovane osserva una coppia di uomini ballare e scambiarsi effusioni: poi cerca di inserirsi tra loro, parlare con uno dei due con cui finisce per litigare ed esserne respinto, per poi rimanere scosso e piangente. Quel giovane è Paolo, impiegato torinese in un megastore, che dopo 8 anni ha troncato una storia con Mario perché il fidanzato voleva sposarsi e avere dei figli: cosa per lui impossibile e contro natura («non si può volere tutto, ci sono dei limiti»). Paolo, triste e solitario, incontra una ragazza incinta che gli sviene tra le braccia. Al sesto mese, Mia – così si fa chiamare – rifiuta di farsi ricoverare. A Paolo, che non vorrebbe farsi coinvolgere ma non riesce a lasciarla sola – non ha casa, non ha nessuno – racconta che si è lasciata con il suo ragazzo. Da lì nasce una peregrinazione, sul furgone preso in negozio da Paolo, tra Asti, Roma, Napoli (dove dovrebbe esserci il padre della bambina che lei aspetta…), la Calabria… In mezzo, tante bugie della ragazza ma anche una simpatia che si rafforza e diventa attrazione e forse un sentimento tra il giovane gay e la giovane squinternata incinta (che va in giro con una giacca imbrillantinata con un’immagine della Madonna sulla schiena). Mia presenta Paolo alla numerosa famiglia meridionale come un caro amico: che possa esserci un improbabile futuro insieme, per loro due e la creatura che verrà?
Fabio Mollo, regista 37enne al suo secondo film dopo Il sud è niente (e vari documentari), racconta un breve incontro anomalo, tra un omosessuale e una ragazza in cui l’attrazione cresce e porta anche a un’intesa amorosa non platonica. Soprattutto, cresce la fiducia di Paolo verso Mia (ma in realtà il suo nome è più tradizionalmente meridionale…) fino a raccontare non solo della fine della storia con Mario, ma anche della sua infanzia in un orfanatrofio (belle le scene in cui Paolo torna nell’istituto gestito da suore): un bambino che non ha mai conosciuto il padre, e che la madre abbandonò piccolissimo, salvo forse venirlo a trovare di tanto in tanto – e quella donna che si allontana di schiena, è un vago ricordo o solo un sogno – prima di far perdere le sue tracce. E anche i vari tentativi di farlo adottare da una famiglia, finirono nel nulla. Luca Marinelli, sempre più lanciato tra i migliori interpreti italiani, regge quasi da solo un film abbastanza esile, e nella prima parte confuso e respingente, tra bui locali gay e clichè da giovani maledetti (di cui fa inizialmente le spese il personaggio di Mia, con i capelli rosa). Isabella Ragonese lo supporta bene, pur con gli stereotipi accennati, nel ruolo della giovane che va in giro con il pancione e una notevole immaturità. Immaturità – insieme a una madre che non la incoraggia – che incrina anche le fragili possibilità che si erano create, di una svolta quasi “miracolosa” nella loro vita. Ma il finale si incarica di aprire una prospettiva nuova per Paolo, chiamato a una scelta generosa e coraggiosa. Che forse non consegna Il padre d’Italia al novero dei film davvero convincenti, ma regala qualche sprazzo di emozione, grazie anche a un attore come Marinelli che riesce sempre a regalarne.
Antonio Autieri