Siamo nell’ultimo anno prima della Grande Guerra, quindi tra il 1913 e il 1914, quando in questo villaggio del nord della Germania un medico cade da cavallo e si frattura gravemente una spalla: qualcuno aveva collocato un filo, “invisibile ma solido”, sul suo percorso. È solo il primo di strani incidenti, su cui la polizia indaga inutilmente. I fatti che man mano si snodano, raccontati in vecchiaia da quello che all’epoca era il giovane insegnante del paese, appaiono sempre più inquietanti allo spettatore: immersi in un bianco nero suggestivo e artisticamente potente che (anche grazie al linguaggio utilizzato, in sintonia con la collocazione temporale e i temi) ricorda certi film di Bergman e Dreyer (ma senza la loro capacità di cogliere l’umanità), vediamo un misterioso incendio in un granaio; poi scopriamo che il medico vittima di quell’incidente che è in realtà un laido, tratta male la compagna che ha preso il posto della moglie morta, e molesta la figlia; il potente barone si disinteressa di tutto e anche della moglie; soprattutto, ci accorgiamo della rilevanza nella comunità del pastore (siamo in ambito protestante) che tratta i figli con un moralismo soffocante, di cui sono simbolo i nastri bianchi che appone sul braccio di chi si “macchia” di colpe anche minime. Nastri che dovrebbero servire a monito per recuperare la “purezza perduta”, ma che suonano sinistri e angoscianti. E quei ragazzi, e altri loro coetanei, sono poi le figure che via via risultano più inquietanti: sia quando uno di loro sostiene «ho dato a Dio la possibilità di uccidermi e lui non l’ha fatto. Non è in collera con me…», sia quando vediamo altri bambini legati ad alberi, picchiati e accecati (un piccolo ritardato), un uccellino ucciso con una forbice… L’insegnante sospetta di questo gruppo di ragazzi, ma si inimica proprio il pastore…
Michael Haneke, regista austriaco cinico al limite del sadismo diventato beniamino di critica e cinefili con film come il terribile Funny Games (poi rifatto, come copia carbone, a Hollywood), il morboso La pianista e il più interessante Niente da nascondere, è abile impaginatore di vicende al limite dell’apocalittico, in cui l’umanità si mostra sempre al suo peggio. Qui, dal punto di vista squisitamente della confezione delle immagini e della tenuta narrativa, arriva senza dubbio al suo apice, con un film compatto che prende l’attenzione e – nonostante certe lentezze, inevitabili ahinoi in certi autori europei che si prendono troppo sul serio, e una durata eccessiva per la pazienza di tanti spettatori – e sembra quasi un giallo (anche con tinte horror). Ed è interessante la contrapposizione tra figure di potere (medico, barone, pastore: non a caso “caste” professionali e sociali elevate) e le rispettive vittime, non necessariamente più umili, come per esempio la baronessa che vuole sfuggire da quel matrimonio; o il contrasto con la coppia formata dall’insegnante e dalla sua timida fidanzata (non a caso, tornata al paese d’origine dopo una breve esperienze nel villaggio in cui è ambientato il film) rispetto alla comunità “malata” raccontata da Haneke.
Quel che non convince è la tesi di partenza, ideologica e forzata (il maestro, all’ inizio del film, inizia a raccontare la storia affermando che i fatti narrati «possono chiarire alcuni processi maturati nel nostro Paese»), che fa derivare esplicitamente la futura tragedia tedesca del nazismo con una “mala educazione” religiosa, bigotta e fanatica incarnata soprattutto dal pastore protestante (e nelle sue interviste Haneke attacca in maniera intollerante ogni credo religioso, come simbolo di potenziale violenza). Sicuramente non è privo di conseguenze su quei bambini e ragazzi quell’insieme di divieti, obblighi, castighi. Ma far coincidere una delle massime tragedie del secolo, che arrivò fino all’indicibile infamia della Shoah, con tutto ciò è una semplificazione non degna di un grande autore. Che questa operazione sia stata premiata a Cannes con la Palma d’oro 2009 la dice invece lunga sulla miopia dei giurati di certi festival e su certe antipatiche manovre: quella giuria era presieduta dalla (peraltro brava) attrice Isabelle Huppert, amica del regista da cui fu ben diretta ne La pianista. Ma in quel festival altri film (Il profeta, Bastardi senza gloria, Il mio amico Eric) hanno toccato maggiormente il cuore e meritavano di più il massimo premio.
Antonio Autieri