Remake dell’omonimo film che valse l’unico Oscar della carriera a John Wayne nel 1969, o meglio rilettura più fedele dell’omonimo romanzo di Charles Portis, è un grande western classico, probabilmente il più riuscito dai tempi de Gli spietati di Eastwood del 1992. Dietro la macchina da presa ci sono i fratelli Coen, una garanzia sia come registi sia come sceneggiatori. Sono infatti tanti, tantissimi i film dei due fratelli che hanno lasciato un segno nella storia del cinema: dagli Oscar conquistati con il noir Fargo (1996) a quel film folle e divertentissimo che è Il grande Lebowski (1998); da quell’omaggio splendido al cinema e alla letteratura noir con L’uomo che non c’era (2001), per arrivare al recente e tragico A Serious Man (2009). Se c’è una caratteristica che abbiamo sempre riconosciuto nello stile dei due fratelli è la capacità di far cinema colto, riflessivo, meditativo, ricco di rimandi cinefili ma anche adatto a un pubblico piuttosto ampio. Un tipo di cinema stilisticamente perfetto, anche nei film meno riusciti, Ladykillers (2004) o Burn After Reading (2008), denso di ironia e umorismo nerissimo a bilanciare spesso storie tragiche che lasciano l’amaro in bocca.

Così il western per i fratelli Coen (ma attenzione perché come produttore esecutivo c’è un certo Steven Spielberg) è una grande sfida. Il western è il genere principe del cinema americano ed ha raccontato sempre, tra alti e bassi, una concezione della vita animata da ideali semplici quanto grandi – l’amicizia, il sogno americano, la famiglia – in un terreno arido dove a scontrarsi era spesso il male e il bene ben delineati e facilmente riconoscibili. Anche la storia del western conosce mutamenti, strappi e complessità: basti vedere come la visione del mondo di un regista come John Ford cambi da Ombre rosse (1939) a Sentieri selvaggi (1956) ma il territorio dove si muovono diligenze e cowboy e indiani è un territorio profondamente morale e le storie in esso ambientate, fino ai tardi western come Balla coi lupi (Costner, 1990) o il già citato Gli spietati, sono storie realistiche e metaforiche al tempo stesso. Questo per dire che i Coen si sono cimentati in un terreno scomodo, forse anche lontano dalla propria sensibilità e dalle proprie convinzioni, ma vi si sono accostati con grande rispetto se non addirittura amore per quel mondo scomparso. Perché il western, per tutti i motivi di cui sopra, è praticamente assente dai cinema negli ultimi decenni.

Così, i Coen prendono come punto di riferimento un western tardo con John Wayne, rimangono aderenti nel complesso alla storia, prendendosi delle libertà nel finale e dirigono un film perfetto, commovente, intessuto di grandi omaggi al cinema del passato. E che omaggi! Se infatti dietro la storia della tenace ragazzina protagonista (resa con una interpretazione da Oscar dall’esordiente e giovanissima Hailee Steinfeld) alla ricerca dell’uomo che l’ha resa orfana si nasconde una storia e un percorso simile proprio a Sentieri selvaggi, è anche vero che il simbolismo forte della vicenda (il viaggio per incontrare il Male come percorso di crescita e di consapevolezza) richiama quello che è stato considerato, a ragione, come il film americano per eccellenza, quel meraviglioso La morte corre sul fiume di Charles Laughton che metteva in viaggio due orfanelli in fuga da un uomo che aveva loro ucciso la madre e che i Coen richiamano esplicitamente nello splendido finale sulle note di “Leaning on the everlasting arms”. Ma il film è densissimo di echi e riferimenti anche al cinema non western: l’incedere epico dei personaggi e il rapporto tra la ragazzina testarda e il vecchio sceriffo senza un occhio, acciaccato dalla vita (e interpretato magnificamente da Jeff Bridges) non può non richiamare alla mente certi film eastwoodiani, Million Dollar Baby su tutti, e il rapporto tra la ragazza pugile e il suo allenatore, così come le continue schermaglie tra Bridges e il ranger impersonato da Matt Damon, a stemperare la drammaticità di certe situazioni, provengono direttamente dai grandi classici di Ford e Howard Hawks. Come ancora la malinconia del finale – e in cui i Coen con le ultime parole della protagonista non rinunciano a ribadire quanto amara e sfuggente sia la vita – pare un grande omaggio al cinema di Sergio Leone.

Sarebbe però riduttivo guardare al film dei Coen come una semplice rassegna per quanto elegante di grandi film del passato, come si capisce fin dall’incipit (“A questo mondo nulla è gratuito eccetto la grazia di Dio”). Il Grinta è il racconto di un viaggio di tre personaggi feriti dalla vita. Ferite fisiche, come si vedrà nel corso del film, ma anche ferite meno visibili e più dolorose che non si rimargineranno mai: Mattie, la ragazzina, dovrà chiudere letteralmente i conti che la morte del padre ha lasciato aperto; il Grinta deve convivere con un passato oscuro segnato dall’abbandono e dalla solitudine. Personaggi pieni di limiti, per nulla eroici nel senso più ovvio del termine, che il Destino metterà insieme per un viaggio che li cambierà profondamente. In particolare, in questo strano triangolo che si vedrà formare – uno sceriffo alcolizzato, un ranger un po’ arrogante e una ragazzina tenace ma che non sa nulla della vita – saranno proprio i due uomini burberi e selvatici a cambiare nel rapporto con Mattie, colpiti, anche inteneriti da quella tenacia mai vista, da quelle ragazzina pronta ad attraversare le terre selvagge per guardare in faccia il Male che ha toccato la sua vita. Così, dopo i diversi colpi di scena del film, raccontato tra l’altro con continui rimandi a immagini bibliche come fossimo in un racconto di Flannery O’Connor, non può colpire la commovente sequenza in cui vediamo un vecchio che – prima facendo correre all’impazzata il cavallo e poi in una lunga, interminabile marcia a piedi – non si dà per vinto. Ma tenacemente porta in salvo dal Male quella bambina che gli aveva cambiato il cuore.

Simone Fortunato