Mario Cavalleri (Stefano Fresi, il biondo corpulento di Smetto quando voglio) vive a Roma con la madre, con la quale gestisce un negozio di ferramenta. Non ha mai conosciuto suo padre, andatosene quando era ancora piccolo (Flavio Bucci, nella sua ultima interpretazione prima della morte). Un giorno riceve una telefonata da Rovigo e scopre di avere un fratello maggiore, Dario (Giuseppe Battiston), che ha ricevuto un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e che verrà rilasciato dall’ospedale psichiatrico solo se lui, in qualità di parente più stretto, se ne farà carico. Desideroso di aiutare il fratello mai conosciuto, Mario si mette in viaggio per Rovigo e scopre che Dario, uno scorbutico che vive in un isolato casolare di campagna, è stato trattenuto per avere inspiegabilmente incendiato il campo di un vicino. La verità è che Dario, rimasto ammaliato dalla notte in cui il padre lo fece assistere allo sbarco del primo uomo sulla Luna, lavora incessantemente a un tentativo per costruire un razzo che lo porti sul satellite.

Con Il grande passo il regista Antonio Padovan (al suo secondo film dopo la bella sorpresa Finché c’è Prosecco c’è speranza) mette insieme per la prima volta Fresi e Battiston, giocando evidentemente sulla loro costituzione robusta e il colore biondo di barba e capelli che li accomuna. Una somiglianza che, accentuata dai differenti accenti (romano uno, veneto l’altro), dà anche l’idea della separazione che ha influenzato le loro vite: Fresi impersona un sempliciotto di buon cuore, che cerca di capire e costruire un rapporto col fratello; Battiston invece fa il ruvido che mal sopporta la tutela obbligatoria cui è costretto, si nega all’affetto del fratello, cerca di tener nascosto il più possibile il pazzesco progetto in cui si è imbarcato.

L’idea di sfruttare la somiglianza dei due bravi attori, entrambi versati nella commedia (non dimentichiamo il felice esordio nel ruolo dello strambo investigatore/idraulico di Pane e tulipani di Silvio Soldini) è una buona base di lancio (visto il tema), ed è certo aiutata dalle musiche del grande Pino Donaggio e dagli effetti speciali ben riusciti. Ma la trama resta fragile, e le due figure che dovrebbero essere diverse ma complementari stentano a reggere il peso della vicenda, che avrebbe bisogno di una maggior definizione dell’ambiente (una bassa veneta che ricorda molto gli esordi di Carlo Mazzacurati) e di snodi che incrementino la tensione della vicenda, un po’ troppo lineare. Contare sulle affinità di coppia dei due è stata una buona mossa, ma per diventare un “caso” cinematografico bisognerà aspettare un’altra occasione.

Beppe Musicco