Le nuove forme del potere – o le nuove forme dell’amore, se dobbiamo credere a chi come Pasolini vede i due termini come opposti legati in un distico insolubile – rispondono a logiche di disumano automatismo e a tanto istintive quanto astratte interpretazioni da teatro d’improvvisazione. Il marchingegno sovra-razionale (leggi sovra-nazionale) della new-boh-economy va a braccetto con il mondo digitale che in un attimo può, da un’immagine inesistente, creare un capo – o un dio, se il limite è sufficientemente sfumato – altrettanto inesistente. Un carrozzone di teatranti, una recita da avanspettacolo in cui non si distingue la macchina dalla magia, in cui tutti recitano un ruolo che non fa per loro. Tanti monologhi di lavoratori disperati come quello, ossimorico ma drammaticamente reale, dello “spazzacamino nella città senza camini”. ,Per conservarsi il potere deve restare occulto (in questo senso magico), e al contempo, per esercitarsi (perché si possa dire che esiste), deve poter tradurre la propria volontà in effetti concreti e visibili nella realtà. L’effetto è visibile e tutti devono conoscerlo. La causa deve rimanere invisibile e ignota. Ma poiché nessuno accetta di essere l’effetto corpuscolare di una causa che non conosce, meglio dare un volto, almeno una maschera, al potere, che, d’altra parte, non ne vuol sapere di essere odiato in quanto potere, preferendo essere amato come vittima impotente (amore e potere, appunto). ,Un po’ tenera – molto crudele –, dotta e randagia, cerebrale eppure ferocemente non-sense, questa “commedia” interamente girata in Danimarca, giunge ad interrompere la trilogia Americana (Dogville, Manderlay) del regista ex-dogmatico. Il film, non assomiglia ai pachidermi da tre ore precedenti, ha il minutaggio del panphlet satirico, veloce e tagliente, analizza una realtà a tutti nota: il giochetto sadomaso, fatto di vittime e carnefici interscambiabili, cui si è ridotto il mercato del lavoro.,Comunque si sa che per Lars Von Trier il centro del mondo è Lars Von Trier; potenza di un altro ossimoro che lo vuole ad un tempo compiaciuto e autolesionista. Si cita senza ritegno (ad esempio quando la bionda Lise ci avverte a metà film che “La vita non è come un film dogma”, e grazie dell’informazione), ci spiega, con scanzonata supponenza, come dobbiamo guardare il film, invade lo spazio della nostra visione con una voce narrante che mai fu più (volutamente) fastidiosa, si riflette narciso nelle finestre del palazzo per dirci che “questo non è un film riflessivo”. La mutilazione di sé passa invece per l’orrore dell’automavision. L’ultimo gingillo per auto-punizioni cinefile di Von Trier altro non è che un programma di computer che si sostituisce all’autore e “decide” da sé in maniera casuale inquadrature e movimenti di macchina. ,
Eliseo Boldrin
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