Il diritto di contare è il titolo italiano del film statunitense Hidden Figures (che gioca sul doppio significato Figure nascoste/Cifre nascoste) diretto da Theodore Melfi (già regista del bel St. Vincent). È un episodio semisconosciuto della recente storia americana, e più precisamente di tre donne, Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Mary Jackson (Janelle Monáe) e Dorothy Vaughan (Octavia Spencer), tre matematiche afroamericane che lavoravano per la NASA quando era stata da poco costituita e non aveva calcolatori elettronici. Per questo motivo l’ente spaziale aveva uno stuolo di donne “calcolatrici”, il cui scopo era effettuare i lunghissimi calcoli che stavano alla base dei lanci e dei rientri nell’atmosfera dei missili, anche se poi la gloria sarebbe andata tutta agli uomini a capo dei progetti. E nonostante fossimo già negli anni 60, tutte queste donne erano raccolte in un unico stanzone, sulla cui porta stava l’etichetta “Colored computers”: calcolatrici di colore.
Il film ben descrive la resistenza che queste donne hanno dovuto superare, anche solo per riuscire a svolgere dignitosamente il loro lavoro, in un ambiente nel quale le vessazioni e la paura erano all’ordine del giorno. Dorothy, la responsabile (de facto, ma non de jure) del gruppo delle calcolatrici, cerca inutilmente di ottenere il riconoscimento che le spetta, studia (sottraendo di nascosto i testi alla sezione “per bianchi” della biblioteca) e insegna alle altre donne come programmare i computer, ben sapendo che è l’unico modo per salvare il loro posto di lavoro, quando anche alla NASA questi faranno la loro comparsa. Mary si appella al tribunale per ottenere di frequentare i corsi che le permetteranno di diventare ingegnere e che sono tenuti in istituti riservati ai bianchi. Ma la parte del leone il film la riserva alla Johnson: a quest’ultima viene chiesto di lasciare lo stanzone delle calcolatrici di colore per entrare nello staff che manderà il primo americano nello spazio. La Johnson deve controllare e ricontrollare le cifre, anche se le pagine che le danno sono piene di cancellature, in quanto è materiale di un livello di sicurezza che a lei non è concesso. In più per raggiungere il bagno riservato alle donne di colore, che è in un altro edificio, deve farsi più di un chilometro a piedi all’aperto, col sole o con la pioggia.
La silenziosa battaglia di queste donne per veder loro riconosciuti diritti e meriti è il cuore del racconto, che aggiunge pathos a un momento già di per sé drammatico per gli Stati Uniti. I russi, che avevano per primi messo in orbita un satellite (lo Sputnik), erano riusciti a far volare un uomo, il colonnello Gagarin, oltre l’atmosfera; mentre per gli americani ogni lancio si risolveva in un fiasco e i politici infuriati premevano sulla NASA perché l’America riprendesse la supremazia. Fu John Glenn, il primo astronauta designato, a esigere che fosse la Johnson a verificare i calcoli del suo rientro sulla Terra, o non sarebbe partito. Decise di mettere la sua vita nelle mani di quella misconosciuta matematica di colore ed ebbe ragione, dimostrando ancora una volta che pari possibilità per tutti potevano rendere il paese più forte e migliore.
Meno efficaci invece sembrano essere le scene della vita privata delle tre protagoniste, fatte di pochi e scontati momenti familiari, incapaci di valorizzare altri attori di talento come Mahershala Ali (premio Oscar per Moonlight), o certe scene facilmente retoriche, come nel caso di Kevin Costner che sembra aspettare solo il momento in cui, armato di una spranga, abbatte la targa delle toilette per persone di colore, abolendo ogni disparità alla NASA.
Premiato da ben tre nomination agli Oscar 2017 (miglior film, attrice non protagonista Octavia Spencer e sceneggiatura non originale), Il diritto di contare rimane un film godibile, che giustamente mostra dei veri eroi (e non da fumetto Marvel): delle donne vere, i cui superpoteri derivano dalla conoscenza e dall’amore per la matematica e per il sapere.
Beppe Musicco