Tre amici, operai nelle acciaierie della Pennsylvania, partono per il Vietnam, dove verranno presi prigionieri dai vietcong e costretti al macabro rituale della roulette russa: ne usciranno vivi ma la loro vita cambierà profondamente.
Definito dai più come “epopea della sconfitta”, Il cacciatore è uno dei più grandi film mai fatti sul disastro americano in Vietnam. Cimino, alla sua seconda opera, fornisce un ritratto appassionato e magniloquente dell’America degli anni 70, ricca di contraddizioni, di speranze e di grandi delusioni. Ambientato in una comunità russa della provincia americana (una costante nel cinema dell’“italiano” Michael Cimino: si pensi al ghetto cinese dell’ Anno del dragone o a Verso il sole girato in una riserva indiana), il film non si dilunga sui particolari più crudeli della guerra, per puntare sul dolore e sull’incomunicabilità di un’esperienza che per chi è rimasto a casa risulta incomprensibile. La guerra rende pazzi e paranoici e non a caso chi si salva dei tre è proprio Mike (De Niro), il personaggio più solitario e meno socievole, un “diverso” ed emarginato già in potenza. La Violenza era già insita nella comunità russa (tanto che Mike, Nick e gli altri si sfogano bevendo e andando a caccia), ma rimaneva ancora un barlume di speranza (la promessa di matrimonio di Nick a Linda, l’attesa di un figlio per Steven…): la guerra si porterà via anche quella. Il canto finale, “God Bless America”, più che canto di speranza e rinascita suona così tristemente funereo.
Simone Fortunato