Adattamento di un famoso racconto di Fernando Pessoa, Il banchiere anarchico di Giulio Base (sezione Sconfini alla 75ma Mostra del Cinema di Venezia) è un’opera teatrale trasposta su schermo per un pubblico cinematografico. Sembrerebbe una contraddizione in termini, e in effetti il nuovo film di Base punta a costruire un monologo argomentativo e apologetico sull’anarchia e su quanto essa sia inscindibilmente legata al potere attraverso un linguaggio specificamente teatrale. Il banchiere in questione (Giulio Base) festeggia con un amico (Paolo Fosso) il suo 50° compleanno ribattendo a un pettegolezzo secondo il quale egli sarebbe stato anarchico in gioventù: la sua anarchia però non è cosa del passato e il dialogo – basato su tesi e antitesi che si confutano per tutta la durata del film – traccia un percorso attraverso la realizzazione di un progetto di anarchia radicale e senza ritorno. Un fascio di luce si limita a indirizzare lo sguardo su diverse ambientazioni di un interno dentro il quale i due protagonisti si spostano, prediligendo la parola su qualsiasi altro strumento cinematografico.
Coraggioso esperimento su un tema caldo e senz’altro interessante, che lascerà di certo spiazzati e delusi gli spettatori in cerca di linearità e intrattenimento. Ci ritroviamo infatti in un continuo gioco cerebrale che riduce all’osso la componente visuale e narrativa della settima arte per prediligere quella intellettuale; citazioni da Hegel, Marx e Sartre si susseguono per costruire un discorso esistenziale e politico sulle finzioni sociali del mondo contemporaneo, nel quale però si fa presto a sfociare in un intellettualismo spesso elitario e pretenzioso; i due attori sono bravi e capaci nel modulare le espressioni con un’enfasi volutamente teatrale, che seguendo l’intera costruzione filmica intende dichiararsi libera dalle strutture tipicamente cinematografiche.
L’impostazione è dunque evidentemente ideologica anche sul piano formale, ma al di là del nobilissimo invito alla riflessione, un’impressione di autoreferenzialità non potrà passare inosservata a uno spettatore capace di leggere tra le righe dell’opera: liberatosi del tradizionale contenitore cinematografico il film resta un po’ ingabbiato nel suo particolare artificio, spingendo forse troppo su quell’impostazione letteraria che su schermo finisce per essere anche autocompiaciuta. Di certo intelligente nelle premesse e filosoficamente accurato, Il banchiere anarchico potrebbe così alienarsi le simpatie anche di quel pubblico capace di trovare l’argomento nelle proprie corde, sorpreso e colpito sulle prime dall’impostazione inusuale dell’opera, dubbioso e perplesso alla fine sulla riuscita dell’operazione cinematografica in quanto tale.
Maria Letizia Cilea