Il terzo lungometraggio del regista statunitense Wes Anderson racconta le vicende dei Tenenbaum, bizzarra famiglia benestante dell’alta borghesia americana degli anni 70. L’attenzione, in particolare, è focalizzata sui tre bambini prodigio che la compongono: Richie è un promettente tennista, Chas è un genio della finanza, Margot un’ispirata scrittrice. Talentuosi rampolli che, crescendo, diventano falliti, esauriti e depressi non-adulti circondati da un microcosmo popolato da soggetti altrettanto stravaganti (come i personaggi interpretati da Bill Murray, talismano di Wes Anderson, Danny Glover o il silenzioso Pagoda cui presta il volto l’attore indiano Kumar Pallana). A fare da perno della storia il capofamiglia Royal Tenenbaum, padre distratto e marito infedele, cacciato di casa da vent’anni per una scappatella di troppo, ora intenzionato a recuperare l’originaria unità familiare rimediando agli errori del passato. Una serie di eventi porterà i figli ormai grandi a tornare sotto lo stesso tetto costringendoli a confrontarsi con i loro problemi, le loro nevrosi, fobie e ossessioni per ristabilire quella letizia dell’infanzia in cui erano cresciuti.
La picaresca tragicommedia della famiglia Tenenbaum, scritta a quattro mani da Wes Anderson e Owen Wilson, è narrata con un’indiscutibile originalità estetica e un’apprezzabile cura per i dettagli (dai costumi retrò alla colonna sonora di vago sapore anni Sessanta passando per l’ottima scelta del cast: Ben Stiller, Owen Wilson, Gwynett Paltrow, i tre figli, come pure Gene Hackman, il padre e Anjelica Huston, la madre, tutti in stato di grazia); l’estetica del kitch che caratterizza la pellicola, tratto dominante di quasi tutta la filmografia del regista, vuole porsi come specchio della grottesca situazione dell’uomo che, con la sua inettitudine/solitudine, si perde nelle difficoltà della vita, trascinando la propria esistenza in uno stato di perenne insoddisfazione e impossibilità di realizzazione. Di fronte a una tale situazione viene ribadito il ruolo centrale della famiglia che, se pur con i limiti dei membri che la compongono e le complessità che la attraversano, viene raccontata come un “luogo” fondamentale, unico e insostituibile. Una sottile, melanconica, ironia, alleggerisce il tema rendendo assolutamente gradevole questa commedia che inneggia costantemente al superfluo e al naif ma che, quando riesce a discostarsi dal reiterato, se pur spesso piacevole, delirio grottesco e nonsense riesce a farsi sottile e raffinata.
Pietro Sincich