Siamo a metà dell’Ottocento, nel vecchio West degli Stati Uniti che tanti film hanno raccontato. E c’è la classica corsa all’oro, che scatena brama di ricchezza e violenza. Charlie ed Eli Sisters, i terribili fratelli Sisters (che buffo cognome…), sono due goffi e comunque professionali killer per conto di un potente signore nell’Oregon che si fa chiamare Commodoro. Duri, senza scrupoli nell’uccidere per lavoro e senza farsi troppe domande sui “condannati” (ma in un mondo dove la violenza è di casa e di stinchi di santo ce ne sono pochi in giro), sono molto legati tra loro, uniti da un’infanzia difficile (c’è l’ombra di un padre detestato), ma diversissimi: il più anziano Eli è stanco di quella vita randagia e pericolosa, e sogna un luogo in cui fermarsi; il più ingestibile Charlie, impulsivo e spesso ubriaco, sembra farsi meno problemi e vivere alla giornata. Sulla loro strada si troverà un’altra coppia, ancora più strana: un chimico utopista, che ha ideato un ingegnoso sistema per far emergere le pepite dal fondo dei fiumi, e il detective che dovrebbe arrestarlo in modo che i Sisters possano strappare la formula segreta al malcapitato. La caccia avrà uno sviluppo inaspettato.

Tratto dall’omonimo romanzo di Patrick DeWitt (ma in Italia edito come Arrivano i Sisters), I fratelli Sisters è un western anomalo diretto dal grande regista francese Jacques Audiard (Il profeta, Dheepan), che per la prima volta ha diretto un film in inglese, per quanto girato in Spagna. Anomalo perché – pur mantenendo i luoghi e i temi tipici del genere: il saloon, il bordello, le sparatorie, le ubriacature, e soprattutto la corsa all’oro – ha molti momenti che lo rendono a tratti una commedia, davvero comici e quasi grotteschi (si potrebbero trovare similitudini in altri film, ma Audiard ha una personalità tutta sua, i paragoni rischiano di essere forzati). Ma anche quando prende una piega più seria, esistenziale, lo fa in modo originale; e qui si vede la mano di un autore europeo, per quanto Audiard stavolta parta da un’idea non sua, ma “commissionata” dal protagonista John C. Reilly che acquistò anni fa i diritti del libro insieme alla moglie produttrice Alison Dickey, e anche che il regista sia stilisticamente sempre meno francese e sempre più internazionale, quasi “americano”, nell’approccio.

Ricco di colpi di scena, I fratelli Sisters – vincitore del Leone d’argento alla Mostra di Venezia 2018 per la miglior regia – si svolge in un mondo brutale e animalesco nella sua violenza e avidità in cui si muovono quattro personaggi sorprendenti, interpretati da attori strepitosi: John C. Reilly e Joaquin Phoenix, i due fratelli Sisters; cui si aggiungono Jake Gyllenhaal in un ruolo solo apparentemente minore, quello del detective scrupoloso e filosofo, e Riz Ahmed in quello del chimico utopista. È nel confronto prima a distanza e poi ravvicinato tra queste due coppie che si gioca parte della storia. Che però trova il suo fulcro nel rapporto tra questi due fratelli agli antipodi eppure sempre insieme, fratelli senza una presenza femminile accanto tanto da dover sopperire anche con improbabili slanci di affetto reciproco (non si chiamano “sisters” a caso, forse). Due uomini duri, ma che iniziano a provare una nostalgia per qualcosa di buono, di caldo e di pulito (magari attaccandosi a un regalo gentile ricevuto da una donna), a rimpiangere affetti perduti. E a desiderare una casa, una famiglia: desideri che possono mettere in crisi una vita che è andata in tutt’altra direzione. Indimenticabile l’ultima parte, con eventi dolorosi e un epilogo sorprendente che sembra un’oasi di bene dopo tanto male.

Antonio Autieri