La forza dell’animazione giapponese è racchiusa in due piccole grandi idee: rubare dalla letteratura e trasformare un sogno in una realtà immersiva. Lo dimostra, ancora una volta, I figli del mare, diretto da Ayumu Watanabe (regista, tra gli altri film, della serie Dopo la pioggia) e tratto dall’omonimo manga di Daisuke Igarashi.
I figli del mare sono Ruka, Umi e Sora. Ruka è una liceale solitaria, che, incapace di incanalare la sua giusta rabbia, si sente incompresa e sola. E quando raggiunge suo padre, che lavora in un grandissimo acquario (lo stesso che lo aveva affascinata e catturata da bambina), tutta la sua avventura ha inizio. Conosce Umi (il cui nome significa “mare” in giapponese) e viene catturata dalla sua capacità di restare in acqua e di nuotare in mezzo ai pesci, come uno di loro. Lui, ragazzino poco più grande di lei, è lì “sotto osservazione” insieme a suo fratello Sora (che, tradotto, significa “cielo”) perché entrambi hanno qualcosa di diverso dagli umani. Almeno così sembra. Anche Ruka, in un certo senso, diversa lo è: vede quello che solo Umi e Sora vedono; comunica, anche senza volerlo, con i pesci.
In questa favola ecologista, che volutamente non ha rigide regole narrative, si respira moltissimo la grandezza della letteratura giapponese: Ayumu Watanabe, chiaramente, si ispira a Iya Iya En, il romanzo della scrittrice giapponese Rieko Nakagawa dal quale è tratto Ponyo sulla scogliera di Hayao Miyazaki. L’acqua del mare in tutta la sua magnificenza è sinonimo della vita che continuamente crea e rinnova. È generatrice di amicizia e di legami tra persone la cui esistenza è diversa da quella di molti. Ed è mistero perché racchiude un universo mai classificabile.
Con i suoi colori rossi, che sono simbolo del dolore in arrivo, con il suo bianco e nero forieri della morte, si può ben dire che il mare è il quarto protagonista di questo film. Eppure I figli del mare – che in qualche modo rivela, soprattutto nello sviluppo finale, una sorta di panteismo naturalista – non racchiude in sé un’avversione all’uomo che usa la natura. C’è certamente (e giustamente) nell’immagine dello spiaggiamento della balena un’accusa nei confronti dell’inquinamento, ma non c’è, invece, l’ideologia che pone la natura prima dell’uomo. Anzi l’uomo serve la natura e se ne serve, anche per nutrirsi.
C’è invece una riflessione sulla tecnologia e sui suoi limiti, e sul suo desiderio tecnocratico di trovare, sempre e in ogni circostanza, una legge in grado di spiegare l’evoluzione del mondo. In questo bel film, adatto anche ai bambini, gli amanti della musica di Joe Hisaishi (storico collaboratore dello Studio Ghibli), riconosceranno le sue composizioni. Come riconosceranno, per chi ha visto La storia della principessa splendente, Kenichi Konishi, direttore dell’animazione e character designer di questo film. Certo I figli del mare non ha una solidità narrativa come i film di Hayao Miyazaki, ma è capace di creare un universo (non andate via quando appaiono i titoli di coda, c’è una sorpresa alla fine) in cui il sogno rivela la potenza e la grandiosità della fantasia.
Emanuela Genovese