L’inizio è sorprendentemente e irresistibilmente comico: il goffo incontro di Mina e Jude nel bagno di un ristorante cinese a New York, dove rimangono bloccati da una serratura difettosa, tra imbarazzo e cattivi odori. Lui americano, altissimo, dinoccolato e dal viso simpaticamente irregolare; lei, italiana negli Usa per lavoro, impacciata e dagli atteggiamenti più tesi, ma pronta ad aprirsi a un’ipotesi d’amore dopo tante sofferenze. L’inizio della loro storia d’amore è tenerissimo, ma fragile come tanti amori. E anche il matrimonio – bella la scena della festa, piena di gioia e di musica (sulle note di “What a feeling”) – e la successiva gravidanza sono vissuti in modo asimmetrico: fin dall’ipotesi di rientro di Mina in Italia, lui forza sempre un po’ la sua volontà, più incerta, forse a causa delle ferite del passato (orfana di madre, non ha più rapporti con il padre ed è sola al mondo). Poi la nascita del figlio porrà nuovi e più drammatici ostacoli sulla loro strada, soprattutto quando una veggente metterà strane idee di “purezza” in testa alla giovane madre.
Saverio Costanzo, ormai affermato regista di talento dopo gli apprezzamenti (anche internazionali) per i precedenti Private, In memoria di me e La solitudine dei numeri primi, con il suo quarto film conferma la predilezione per storie drammatiche, apparentemente “piccole” e claustrofobiche ma in grado di rappresentare drammi esistenziali sinceri, contemporanei, universali. Qui, ispirandosi al romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso, rappresenta un tema classico, la deriva di un amore messo in crisi dalla nascita di un figlio, in modo angosciosamente moderno: vuoi per lo stile, spezzato e nervoso grazie a un uso agile e disinvolto della macchina da presa (e del digitale, che dà ampia libertà di movimento alle scene a questo piccolo film, girato a New York in inglese, in poche settimane e con budget ridotto), vuoi per il tema attuale delle ossessioni “alimentari” della madre vegana che teme per il proprio piccolo ogni tipo di pericolo. Non solo dal cibo, peraltro, ma anche dai cellulari e perfino da ogni altra cosa possa incontrare oltre il pianerottolo. Costanzo è bravo nel non condannare la donna dalle convinzioni vegane, amata dal marito – pur travolto dalla piega degli avvenimenti – in modo tenerissimo, e nel partecipare al loro dramma con una pur sobria e controllata empatia. Ed è efficace nel far parlare le immagini (la protezione metallica sulle scale, la serra sul tetto della casa per l’autosufficienza alimentare), rimanendo incollato ai volti e ai corpi dei protagonisti per far entrare anche lo spettatore nella loro vita.
L’ottimo risultato di un film toccante, ma che può risultare anche respingente per chi al cinema non accetti storie angosciose o sofferte, è garantito oltre che dal talento del regista dalle interpretazioni dei due protagonisti, premiati entrambi alla Mostra di Venezia 2014 e su cui il film poggia quasi per intero: se Alba Rohrwacher, già impiegata da Costanzo nel precedente La solitudine dei numeri primi, è credibilissima nel ruolo di Mina (e coraggiosa nel rischiare le solite ironie per il suo “abbonamento” a ruoli di donne tristi o nevrotiche), l’americano Adam Driver, che dopo piccoli ruoli in Lincoln e A proposito di Davis vedremo nella prossima nuova saga di Star Wars, è perfetto nel rendere lo spiazzamento di un giovane uomo cui crollano pian piano tutte le certezze e che non sa come rimediare agli eventi. E in effetti, l’ingresso a un certo punto della storia con sempre maggior invadenza di un terzo personaggio (la madre di lui, nonna preoccupata per la salute del nipotino), indebolisce una storia fino a quel punto tesa come un film di Polanski, che prende una via da thriller fino ad arrivare a un finale che non convince e che è il punto debole dell’opera. Ma Hungry Hearts (ovvero “cuori affamati”, a indicare il desiderio di vita di Jude e Mina) rimane comunque nella memoria come un tassello importante nella crescita artistica di Saverio Costanzo, che pure non ha ancora espresso del tutto le sue qualità (una mano esperta a collaborare alle sceneggiature non guasterebbe). E soprattutto come un piccolo ma incisivo ritratto di una coppia soggetta ai rischi dell’amore (coniugale e genitoriale): dal possesso all’ansia, dalla pretesa alla disperazione. Un film sincero come le sofferenze dei due personaggi principali (di una verità “fisica” e urticante), perché è sincero lo sguardo del suo autore.
Antonio Autieri