“Ci sono argomenti universali, ma ogni storia è unica”. Con questa premessa, il fotografo e regista francese Yann Arthus-Bertrand ha dato il via al progetto Human, sostenuto dalle fondazioni Bettencourt Schueller e Good Planet: tre anni, 60 Paesi, 2020 persone intervistate in 63 lingue diverse su temi quali amore, guerra, diritti della donna, omofobia, natura, povertà, lavoro, felicità e altro ancora. Una ricerca sul concetto di umanità che implicitamente si intreccia con una riflessione sull’altro: a cosa teniamo di più? Cosa ci fa più paura? Quanto siamo diversi? C’è qualcosa, al di là delle singole culture ed esperienze, che ci accomuna tutti?
In frammenti di pochi minuti l’uno, persone di tutte le età offrono il proprio sguardo sulla vita, raccontando esperienze di cui sono state protagoniste. Sono riprese in primo piano su uno sfondo nero, non conosciamo la loro provenienza (possiamo solo immaginarla), e non sentiamo le domande cui rispondono; a volte, semplicemente tacciono guardando in camera: la sensazione prodotta da questa scelta di regia è quella di guardarsi allo specchio, o di trovarsi faccia a faccia con un amico, a conversare in un luogo intimo. A facilitare il coinvolgimento è anche la semplicità espositiva che accomuna tutti i racconti, anche questa probabilmente aiutata da un intervento del regista e dei montatori (intervento che nulla toglie alla naturalezza degli intervistati).
Alcune storie suonano più familiari, come quella di un uomo che ci spiega che per lui l’Amore è stato assistere la moglie malata negli ultimi anni di vita, o quella di un ragazzo che ha tagliato i ponti coi genitori dopo aver rivelato loro la propria omosessualità. Altre invece sono testimonianze incredibili, come la storia della donna ebrea che a due anni e mezzo è stata nascosta e salvata da un ufficiale delle SS. Le interviste sono suddivise in blocchi tematici, a loro volta intervallati da riprese aeree mozzafiato (il regista è anche fondatore di un’agenzia specializzata in fotografia aerea) di scenari naturali di vario tipo, che anche grazie all’apporto di un’intensa colonna sonora favoriscono la riflessione sulle vicende ascoltate.
Nell’alternarsi delle interviste e delle immagini la concezione di “vita quotidiana” spazia dalla serenità di quattro mura all’orrore della guerra e della carestia, ma tutti i racconti, anche i più “normali”, sono resi speciali dalla loro autenticità. Lo sguardo sulla condizione umana non è improntato ai buoni sentimenti: accanto a testimonianze di indiscutibile dignità e spessore, e a posizioni al contrario difficilmente condivisibili (ad esempio perché estremamente misogine o guerrafondaie) sono riportati pensieri controversi o provocatori, figli di contesti molto particolari, che sarebbe semplicistico catalogare come “giusti” o “sbagliati” e che forse più di tutti rimangono impressi. Sono anche le lontananze a portarci a conoscere meglio la nostra natura.
L’intento principale di Arthus-Bertrand, ovvero il richiamo a una nuova coscienza politica ed ecologica, si riflette nel dare voce a chi si trova in una situazione d’allarme e non viene mai ascoltato. Questo appello però non raggiungerebbe il cuore dello spettatore con tanta efficacia, se non fosse per la fiducia posta dal regista nell’impatto emotivo della narrazione, più che nella completezza delle informazioni: perché la verità è che tutti abbiamo una storia da raccontare (e da ascoltare).
Maria Triberti