Nel concorso si fa notare L’Arminuta di Giuseppe Bonito  (che torna a raccontare la famiglia dopo aver “ereditato” un paio di anni fa la regia di Figli da Mattia Torre). Tratto dal bel romanzo di Donatella Di Pietrantonio, che firma la sceneggiatura insieme alla veterana Monica Zapelli  (I cento passi), il film racconta una storia che sembra uscita da un passato remoto e invece ci parla di un’Italia di solo cinquanta anni fa. Una bambina di tredici anni (Sofia Fiore) viene restituita – a qui il suo soprannome “arminuta”, la ritornata – alla povera famiglia d’origine sulle montagne abruzzesi dai parenti ricchi che l’avevano fino ad allora cresciuta. La bambina deve adattarsi a un mondo diversissimo dal suo, per molti versi ancora arcaico, sia nelle abitudini che nei rapporti famigliari, fatto di silenzi, durezza e a volte violenza, ma non privo di sentimenti profondi. L’Arminuta, con i suoi bei vestiti cittadini, le sue buone maniere e i suoi successi scolastici, sembra non c’entrare nulla con i contadini di cui tuttavia è figlia; a farle da alleata, fin da subito, con un istinto primitivo e senza mezzi termini, è la sorellina Adriana cui in cambio lei regalerà la prima gita al mare, il gelato e una prospettiva più grande che tra i vicoli del paese e i muri di casa sembra essere preclusa. Su tutto questo aleggia il mistero di una madre amata (Elena Lietti) che all’improvviso e senza motivo si sottrae (pur continuando ad esistere attraverso doni e denaro largamente elargito) e una nuova (Vanessa Scalera) con cui il rapporto è faticoso e contraddittorio.

La regia di Bonito è piana, quasi antica, valorizza i primi piani e gli sguardi che spesso si sostituiscono al linguaggio verbale, che la famiglia d’origine dell’Arminuta sembra fatichi a padroneggiare. Dentro le trame di rapporti complicati, che sembrano parlare di un mondo che non c’è più e che pure era l’Italia fino a ieri, il racconto privilegia la comprensione al giudizio e rilancia la possibilità di felicità che sappia guardare ai doni del presente e alle promesse del futuro.

(Laura Cotta Ramosino)

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In concorso alla Festa del cinema di Roma è anche Passing, la raffinata opera prima di Rebecca Hall destinata a Netflix e tratta da un romanzo di Nella Larsen. Nella New York di fine Anni 20, due donne afroamericane si rincontrano dopo 12 anni proprio nel momento in cui fingono di essere bianche: Irene, madre di famiglia con una consolidata vita ad Harlem, fatica ad accogliere in casa sua la ritrovata Clare, a suo agio con la finzione al punto di essersi sposata con un bianco ignaro e razzista, e che si insinua presto nella cerchia di amici e famiglia della coetanea.

Il film compie una scelta formale ben precisa, presentandosi come una pellicola degli Anni Venti, in bianco e nero e con un’attenzione particolare ai giochi di luce, rendendo esteticamente tematici i colori: ci sono allora musica d’ambiente, lunghi dialoghi ma anche pause narrative, oltre a stilemi propri di un’epoca rispolverati attraverso inquadrature e movimenti di macchina. L’estetica rischia però di prendere il sopravvento e diventare invadente, rendendo difficile accedere a una storia – in cui si mettono in luce le protagoniste, Tessa Thompson e Clare Kendry – di per sé interessante e attuale.

(Roberta Breda)

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Coproduzione tra tra Festq del Cinema e sezione autonoma Alice nella città, nasce come un musical pluripremiato il nuovo film del regista di Wonder, Stephen Chbosky, Dear Evan Hansen, che racconta i travagli di un liceale con molti problemi psicologici che per un equivoco da cui non riesce a uscire si trova coinvolto con la famiglia di un compagno di liceo suicida. Tematiche che in anni recenti sono state affrontate (e non sempre con adeguata profondità) anche da alcune serie televisive.

Il ritratto di una generazione di adolescenti fragili (non ci metterà molto Evan a scoprire che sotto la superfice sono in tanti a soffrire di una qualche forma di disagio) è interessante e problematica anche perché la storia, pur svolgendosi all’interno di una scuola, non contempla la presenza di alcun insegnante con cui il protagonista o i suoi compagni possano confrontarsi.

Il dialogo, o la mancanza di esso, vive soprattutto nell’ambito famigliare (quello modesto di Evan, una madre sola e lavoratrice magistralmente interpretata da Julienne Moore, o quella agiata del giovane suicida, in cui spicca la figura della madre dolente che ha il sorriso dolce di Amy Adams), non demonizzato, per una volta, ma svelato nella sua faticosa quotidianità.

Le canzoni ben descrivono i tormenti di ragazzi e genitori; e se in qualche punto forse rischiano di durare un po’ troppo a lungo spezzando il ritmo del racconto, è però vero che la regia accompagna con delicatezza un racconto forse abbastanza prevedibile ma intenso e capace di raccontare anche l’approccio tutto americano al disagio, che è prima di tutto in una logica “medicalizzata” (Evan e non solo lui hanno una collezione di pillole da prendere…) e solo in un secondo momento “comunitaria” e  di condivisione. Senza facili lieti fini ma con un’apertura alla speranza che non stona.

(Luisa Cotta Ramosino)

(2 – continua)

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Nella foto: Caro Evan Hansen di Stephen Chbosky

 

Il trailer di L’Arminauta 

Il trailer di Passing

 

Il trailer di Caro Evan Hansen