Anche chi non avesse visto alcuno dei sette film precedenti di Wes Anderson (ma cerchi di rimediare a questa incresciosa mancanza), non potrebbe che rimanere stupito e ammirato di fronte al suo talento visivo: la composizione delle inquadrature, la scelta della tavolozza dei colori, il gusto per le scenografie, gli effetti speciali ottenuti senza alcun ricorso al digitale (solo per fare qualche esempio), fanno sì che ogni nuova pellicola di questo regista sensibile e ingegnoso sia una scoperta che lascia stupiti e ammirati. Dimenticatevi tutta la tecnologia contemporanea: Anderson ogni volta approfondisce i fondamenti dell’arte cinematografica esercitandosi sempre a trovare nuove soluzioni con gli strumenti più antichi. Sfondi dipinti, modellini, e un uso tanto classico quanto creativo della macchina da presa (su YouTube da tempo gira un video che esalta l’uso che Anderson fa della simmetria nei suoi film), fanno sì che ogni lavoro di questo autore sia lungamente atteso dal pubblico, anche per scoprire chi sarà presente nel cast, tra vecchie conoscenze che non mancano mai (Jason Schwartzmann, Bill Murray, almeno uno di fratelli Wilson, ma l’elenco sarebbe ben più lungo) e nuovi arrivi (Willem Dafoe, Jude Law, Saoirse Ronan, e anche qua la fila si allunga). La verità è che al momento attuale non ci sono registi americani paragonabili ad Anderson per originalità, ambizione, e che siano diventati così evidentemente oggetto di culto. Un’ottima occasione per riconfermare tutto ciò è proprio Grand Budapest Hotel, un film ambientato negli anni 30 nell’allegorica Repubblica di Zubrowka, da qualche parte tra la Mitteleuropa e i Balcani, sempre sul quel confine che divide e ossessiona l’Impero Austro-Ungarico, quello Ottomano e la Russia dei Soviet (o quel che sembrano essere). Il film inizia nel 1985, quando un anziano scrittore inizia a ricordare quando nel 1968 frequentò il Grand Budapest Hotel, un tempo splendore di fasto architettonico, poi ridotto a un albergaccio in perfetto stile socialista, rivestito di formica e orrende tappezzerie arancioni. In quel soggiorno riuscì a entrare in confidenza con l’enigmatico proprietario, il signor Moustafa, che gli racconta come iniziò la sua carriera come garzone, col nome di Zero e sotto la tutela del carismatico concierge, Mr. Gustave. Questi è un personaggio complesso e affascinante, sovrano dell’albergo e al tempo stesso cortigiano di tutti suoi ospiti (ma preferibilmente di ricche e anziane signore), che governa e serve con un fascino acuito dai lussi del tempo (splendidi wagon-lits, servitori in livrea, arredi opulenti e bagagli di cuoio cucito a mano) e da una rete di conoscenze che permettono di soddisfare qualsiasi capriccio. Un senso di nostalgia avvolge tutto il film, che narra di tempi e luoghi che gli americani vedono con spirito idealizzato (per trovare un riferimento letterario, più da Stefan Zweig che da Joseph Roth). Ma (come insegna il grande Lubitsch, altro punto di riferimento di Anderson), il confine tra la commedia e la tragedia è sottile e ricco di sfumature, che il regista accumula ed esalta. La circostanza è un quadro lasciato in eredità a Gustave e cui invece la famiglia non intende rinunciare e che sarà l’occasione per il piccolo Zero di diventare un uomo, e per segnare anche il destino dello splendido albergo. Tra militari, killer professionisti e piccole pasticcere innamorate, la vicenda è un carosello di sentimenti e immagini, che volutamente si fanno beffe della Storia, ma prendono sul serio grandezze e meschinità del genere umano.,Beppe Musicco,