Mentre la moglie Grace è impegnata sotto le armi nella guerra in Iraq, Stanley (un John Cusack straordinariamente ispirato, qui probabilmente nella sua miglior interpretazione di sempre) è rimasto a casa a badare alle figlie di 12 e 8 anni. Improvvisamente, in modo del tutto inatteso, arriva la tragica notizia: Grace è rimasta uccisa in un conflitto a fuoco contro il nemico. ,Inizia per Stanley l’impresa più difficile della sua vita: comunicare il lutto alle sue due figlie e tentare di dare una spiegazione al dolore distruttivo che si è abbattuto sulle loro esistenze.,Piccolo film indipendente passato inosservato nelle nostre sale, firmato da un regista esordiente, vincitore del premio del pubblico al Sundance Film Festival e vincitore del premio della critica al Festival del Cinema di Deauville, Grace is Gone è davvero una delle più piacevoli sorprese dell’annata cinematografica.,Senza cadere nella facile trappola della commozione gratuita e della (a volte retorica e stancante) critica all’intervento americano in Iraq con tutte le conseguenze del caso, fatta eccezione per la sola parte in cui il protagonista incontra il fratello che è un convinto antimilitarista, il film – interamente girato “on the road” – affronta con rigoroso e intelligente equilibrio il tema del dolore che deriva dalla perdita di una persona cara e dell’importanza dell’amore e dell’unione familiare come elementi necessari per saperlo affrontare.,In un primo momento, nel protagonista vince la paura ed ogni tentativo volto a rivelare alle figlie quanto accaduto non sortisce alcun esito positivo. Poi però gradualmente, giorno dopo giorno, la comprensione dell’importanza dell’unione familiare (in una bella sequenza all’interno di un centro commerciale, tutti si ritrovano insieme all’interno di una piccola casetta giocattolo: quasi a dire che nella difficoltà e nel dolore è necessario sapersi ritrovare in un ambiente che rappresenti il calore dell’amore della famiglia) e la consapevolezza che le sue figlie, per quanto piccole, non potranno rimanere a lungo nella sensazione di disagio e di “non detto” che il padre sta gradualmente creando attorno a loro (si veda il crescente sospetto della figlia maggiore, sempre più diffidente nei confronti del padre) lo convinceranno a prendere la decisione giusta.,Ed ecco allora che il viaggio (tema centrale del film, che lo caratterizza dall’inizio alla fine, e intrapreso dal padre in compagnie delle figlie verso un lontano parco di divertimenti) diventa metafora: da una parte di un percorso interiore destinato a fare chiarezza e a comprendere meglio la tragedia che si è compiuta e dall’altra come tentativo di esorcizzare il dolore, tentativo rappresentato dal raggiungimento di qualcosa di evasivo e che possa riprodurre “un momento di felicità, anche se breve, nel momento di sconforto generale”.,Puntellato da una struggente colonna sonora firmata da Clint Eastwood (e che qui è coerente con il suo caratteristico stile di compositore: melodie minimaliste, composte con pochi strumenti e quasi “silenziose”), caratterizzato da una regia senza sfumature e da una sceneggiatura per nulla retorica o eccessivamente prolissa, il film (che nella parte finale “vola”, in una sequenza di fronte alla grandezza del mare che sarà difficile dimenticare) riesce davvero a scuotere i sentimenti dello spettatore, a commuoverlo (senza costringerlo alla lacrima a tutti i costi) e a farlo riflettere sulla necessità imprescindibile dell’amore per saper affrontare (e sconfiggere) il dolore della perdita.,Francesco Tremolada