New York. Nick (Ben Safdie) e Connie (Robert Pattinson) Nikas sono due fratelli provenienti dal quartiere del Queens e maltrattati da una nonna insensibile e violenta. Per amore del fratello, affetto da un ritardo mentale, Connie decide di organizzare un colpo lampo in una banca, per recuperare i soldi con i quali costruire per entrambi una vita normale in Virginia. Il colpo va male, Connie riesce a fuggire, ma Nick viene arrestato dalla polizia e messo in una delle carceri più violente della zona; Connie cerca disperatamente di trovare i soldi per pagare la cauzione e far uscire il fratello, mentre organizza in parallelo un piano per farlo evadere dall’ospedale, dove Nick è stato ricoverato a seguito di una rissa scoppiata in carcere.
Un Robert Pattinson emaciato in una giungla di eventi che si susseguono imprevedibili e indomabili. Il Good Time dei fratelli Safdie, presentato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2017, è un paradosso linguistico volutamente sarcastico nei confronti del protagonista, che nella furia di una notte newyorkese cerca di mantenere uniti i pezzi della sua esistenza, oppresso dal senso di colpa e dalla frenesia delle azioni – avventate – che compie per salvare suo fratello e se stesso. Ma proprio come tutta la struttura del film, il messaggio di per sé c’entra poco con ciò che ai due autori interessa comunicare, e quel “good time” è rivolto soprattutto all’effetto che l’opera dovrebbe provocare sullo spettatore, coinvolto in un “divertimento” che in inglese è anche “baldoria”, “caos”, tutto visivamente cinematografico.
L’ottima fotografia fa allora da protagonista, puntando su un ritmo frenetico di immagini allucinate e di colori disturbanti, che intendono concretizzare l’agitazione esperienziale ed esistenziale del protagonista quanto dello spettatore, in un’escalation di eventi dal ritmo forsennato e disperato; eppure, nonostante la potenza degli aspetti estetici e visuali, il film (pure per il suo impianto legato ai più tradizionali film di genere action anni ‘70), non può reggere alla separazione dal contenuto di una storia che i due registi vorrebbero mettere in secondo piano: ci si ritrova così costretti ad aggrapparsi ad un impianto narrativo scricchiolante e debole, basato su idee quanto mai convenzionali (il crimine come rimedio alla miseria, l’amore fraterno tradito) declinate peraltro in un’ottica del tutto impersonale e distaccata da un qualsiasi tentativo d’empatia. La dimensione del dramma famigliare i cui toni aprono il film, viene velocemente sostituita dal dinamismo dell’action movie Scorsese style, che volontariamente ingombra l’intera narrazione, sprecando molte occasioni d’oro per disegnare il lato più introspettivo di Connie.
L’amore per la pulizia della messa in scena predilige invece il volto di un Robert Pattinson, avviato verso la maturità attoriale, che è materia umana esasperata di ogni singolo primo piano, asfissianti e angoscianti, focalizzandosi su un uomo che agisce e fa agire ma rimanendo però allo stesso tempo sconosciuto allo spettatore.
Paradossalmente il film funziona meglio nei momenti in cui ci mostra i background culturali dei personaggi secondari, parlandoci della dimensione sociale diseredata dei sobborghi americani, che come materia viva di un moderno Saturno abbrutiscono e divorano le persone che la abitano in modo inesorabile e violento; in quest’ottica gli spazi attraversati dalla cinepresa sono fatti di una interminabile periferia, di una quotidiana miseria che si identifica proprio in quei personaggi secondari: piccole schegge nella dinamica di un film in cui qualunque cosa potrebbe accadere, ma che nell’evidente inconsistenza della storia ci parlano (meglio dei protagonisti) delle condizioni di un microcosmo americano disperato, alla ricerca di quella realtà fatta di uomini, di redenzione e di storie che i due registi sembrano invece aver dimenticato.
Letizia Cilea