Vincitore del Gran Prix del Festival di Cannes, il secondo premio della rassegna francese, anche se forse avrebbe meritato addirittura la Palma d’oro, Gomorra è diretto da Matteo Garrone con una capacità che sembrerebbe quella di un maestro e non di un 39enne al suo sesto film. E al suo primo davvero importante, anche se non pochi (compreso chi scrive) impararono ad apprezzare il suo talento fin dai primi piccoli e quasi invisibili film Terra di mezzo e Ospiti.
Talento che ormai è appunto evidente con questo film, che pure deve moltissimo al libro di Roberto Saviano, viaggio allucinante nelle terre di Scampia e Casal di Principe fin dall’incipit: in un centro estetico alcuni giovani uomini curano il proprio aspetto fra lampade, lettini, manicure. Finché non arrivano alcuni killer e li ammazzano a bruciapelo. È l’inizio di una narrazione tesa e nervosa, che incrocia numerosi personaggi che faticano a rimanere impressi come nomi e storie, volti e vite. Con uno stile moderno (la scena finale del “ragioniere” che si allontana tra i cadaveri dell’ennesima strage, con le orecchie ovattate dal rimbombo dei colpi e l’orrore negli occhi, è un pezzo di grande cinema) ma mai narcisistico, con un’incredibile economia espressiva che è anche morale: perché non ci possono essere bellurie nel raccontare, con angoscia, il degrado umano di una Campania descritta in maniera apocalittica dal libro omonimo di Roberto Saviano (1 milione e 200 mila copie vendute in Italia da Mondadori, traduzioni in 33 Paesi) e poi dal film. Dove la Camorra è ovunque e controlla tutto, anche attività apparentemente legali tanto da essere diventata Sistema.,Le storie sono quelle del “ragioniere” Ciro che distribuisce soldi alle famiglie dei detenuti della “famiglia” da cui dipende, del sarto Pasquale che si fa tentare dalle offerte di un “imprenditore” cinese per insegnare il mestiere ai suoi tessitori sottopagati (e rischierà la pelle per questo), dei giovani Marco e Ciro, violenti e ingenui, che sognano di diventare Scarface, del piccolo Totò che aspira ad entrare nella banda dei grandi ma non sa cosa significa davvero (terribile l’iniziazione: indossato un giubbotto antiproiettile, dei ragazzini si fanno sparare per dimostrare di essere coraggiosi), di Roberto laureato disoccupato che inizia a lavorare con lo “smaltitore” di rifiuti Franco (interpretato dal grande Toni Servillo) che compra terre, in tutta Italia, da riempire di rifiuti tossici (impressionante l’industriale veneto che gli dice «l’importante è che sia “clean”, come dicono in America») e all’inizio pensa pure di essersi sistemato bene… ,Sono tutte vite consumate dalla violenza e dal desiderio di potere e di soldi, da rapporti che si sciolgono all’improvviso (come i due bambini che da amici diventano nemici di guerra: «Se non cambi parte – dice uno all’altro – può darsi che ti ammazziamo o che tu ammazzi noi»), dalla mancanza di rispetto per la vita altrui ma anche propria; vita quasi sempre precaria, che da un momento all’altro può essere spezzata con violenza, portando poi ad altra violenza, vendetta, sangue. Anche a caso, come afferma un ragazzo dopo la morte di un suo amico: “Adesso facciamo i morti”, nella gang rivale ma senza sapere con chi esattamente prendersela. E la vittima, infatti, sarà tra le più innocenti.
Certo, non c’è un minimo di speranza e di redenzione in Gomorra: e sì che qualcosa si salverà pure in quelle terre martoriate. Ma non è questo il film sulla speranza: tra rifiuti tossici gestiti dalla Camorra per traffici economici, baratro educativo con giovani e giovanissimi in balia della violenza e affascinati dal potere delle armi e omicidi brutali, la pellicola di Garrone è un angosciante affresco su un mondo che esiste e su cui non si può chiudere gli occhi (incredibile un dato sui titoli di coda: le mafie hanno ucciso in trent’anni 4 mila persone). Una violenza oscena, mai contemplata con compiacimento come avverrebbe in un film hollywoodiano.
Antonio Autieri