Jafar Panahi attualmente è in carcere a Teheran con l’accusa di “propaganda anti governativa”; è stato arrestato quando si è presentato in carcere chiedendo notizie di un altro regista imprigionato, Mohammad Rasoulof (l’autore del bellissimo Il male non esiste).

Dal 2011 Jafar Panahi era agli arresti domiciliari con un divieto di dirigere per 20 anni; da quel momento il regista ha mostrato un interesse necessario nel definire i confini impostigli dal governo iraniano. Quello che seguì furono una manciata di film realizzati in condizioni restrittive che costituivano uno sforzo per rivendicare gradualmente l’autonomia artistica e resistere all’oppressione (vedi Taxi Teheran del 2015). Quel ciclo sembrava culminare con Tre volti del 2018, film nel quale Panahi attraversava una rete di villaggi rurali mostrando paradossalmente l’impossibilità delle condizioni della sua stessa creazione.

Per Gli orsi non esistono, Panahi sembra aver di nuovo approfittato di un ultimo spiraglio di libertà, poiché il film lo vede trasferito da Teheran in una stanza presa in affitto in un villaggio vicino al confine turco (e durante una lunga sequenza di guida notturna, contempla persino un tentativo di valico di frontiera). La maggior parte delle volte però, il regista rimane rinchiuso nella sua stanza cercando di dirigere a distanza un nuovo film, un dramma (girato in una città turca appena oltre il confine iraniano) su una coppia di dissidenti iraniani, Zara (Mina Kavani) e Bakhtiar (Bakhtiar Penjei), in attesa della consegna di due passaporti stranieri contraffatti. Come apprendiamo in seguito, i due attori di questo film all’interno di un film interpretano in realtà versioni leggermente romanzate del loro sé reale (però reale ne Gli orsi non esistono, ovviamente), e le differenze tra le difficili circostanze che stanno affrontando e il modo in cui Panahi li ritrae causa una tensione crescente tra i due con la troupe.

Nel frattempo, un altro dramma scoppia nel villaggio in cui il regista risiede, poiché i vecchi del villaggio chiedono la consegna di una presunta fotografia fatta da Panahi a una giovane coppia, Gozbal (Darya Alei) e Soldooz (Amir Davari), e questo è visto come l’unico mezzo per risolvere una controversia su un matrimonio combinato. Sia nella narrazione incentrata sugli abitanti arrabbiati del villaggio che nel meta-dramma sui cercatori di passaporto, una macchina fotografica/cinepresa è l’arbitro, il mezzo per distinguere una verità da una finzione.

Gli orsi non esistono – che ha vinto il Premio speciale della Giuria alla Mostra di Venezia 2022 – riguarda essenzialmente il modo con cui misuriamo la verità attraverso ciò che le immagini mostrano (o non mostrano). Nel film ci sono alcuni momenti che trovano modi creativi per trasformare il contesto attraverso il quale pensiamo a ciò che stiamo guardando; non per niente l’apertura del film cattura uno scambio emotivo tra Zara e Bakhtiar, con un movimento della telecamera accuratamente coreografato, ma è punteggiato da una voce fuori campo che urla “taglia”, informandoci così che la scena era una ripresa del “film nel film”. Infatti successivamente, la telecamera si allontana per rivelare che l’intera scena viene vista da Panahi sullo schermo del suo laptop.

Tuttavia, nonostante tutte le implicazioni insite nella sostanza di questa “metafiction”, ciò che è degno di nota è che, il più delle volte, Gli orsi non esistono si presenta come uno dei film più drammatici di Panahi, e ciò può essere attribuito al cupo stato d’animo di un regista che sa che il carcere lo aspetta.

Il film è anche un evidente tributo al suo maestro, Abbas Kiarostami: c’è una lunga scena iniziale di Panahi che vaga, cercando disperatamente di trovare il segnale per il cellulare, simile a quella de Il vento ci porterà del 1999. Anche l’effetto che la presenza del regista ha sulle relazioni tra le due diverse coppie con cui interagisce in Gli orsi non esistono, rimanda fortemente al trattamento riservato da Kiarostami ai suoi due giovani protagonisti in Sotto gli ulivi del 1994.

Ma soprattutto, la relazione che il regista traccia tra i confini della realtà e del cinema di finzione e i confini della geografia e della cultura che limitano la vita sociale in Iran, si traduce in alcuni momenti fortemente emotivi. Jafar Panahi è ancora una figura di fondamentale importanza nel cinema internazionale e soprattutto pensa al cinema non solo come arte, ma come una sorta di rifugio (politico, sociale, artistico: umano insomma) in un modo che pochi altri registi viventi possono eguagliare. Speriamo che al più presto abbia ancora la possibilità di continuare il suo percorso.

Beppe Musicco

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