Gli abbracci spezzati si apre con l’immagine di un occhio spalancato. Nella pupilla di quello che scopriremo essere il protagonista, un regista cinematografico cieco, si riflette la sagoma di una ragazza che sfoglia le pagine di un quotidiano. Le immagini ci guardano, sembra proporre questo suggestivo incipit: ci guardano, come ha scritto Josè Saramago nel romanzo Cecità, con gli occhi di chi le guarda. Il cinema, rammenta Pedro Almodóvar con questa non nuova ma sempre intrigante intuizione, non è solo arte della visione: muove corde più profonde che possono vibrare indipendentemente dall’immediatezza suggeritaci dalle superfici (dalle forme, dai colori, dalla luminosità), tanto da far dire al protagonista, nel finale,che “i film vanno sempre completati, anche se fatti alla cieca”. Gli abbracci spezzati scava nel profondo, nell’intimo degli affetti e delle relazioni, e parla di sentimenti forti, complessi e contraddittori, senza smettere – tuttavia – di parlare di cinema e di immagini. Il cinema è un personaggio stesso del film, perché ha un ruolo attivo nell’innescare meccanismi non tanto intellettuali quanto emotivi e relazionali, e sopravvive come memoria condivisa e terreno di confronto, perché attraverso riferimenti e citazioni permette ai protagonisti di intendersi e spiegarsi (così come si spiega Almodóvar e si intende con gli spettatori che condividono la sua cinefilia).
Eppure sembra proprio un film completato “alla cieca”, come recita la battuta che congeda lo spettatore prima dei titoli di coda, o alla svelta, come si evince dal terzo atto del film (dall’incidente evocato nel flashback fino alla fine) abbastanza frettoloso e un po’ inerte, quasi che l’autore non sapesse come chiudere la storia dopo aver aperto tante linee narrative. Non è sempre buon segno quando un regista gira un film su un regista in crisi, perché di solito quel film parla del regista stesso e della crisi, reale, in cui è caduto. Così che i tentennamenti si percepiscono e si ripercuotono su chi guarda. Per chi conosce la carriera di Almodóvar, inoltre, non suonerà nuova questa istanza, la stessa che muoveva il precedente La mala educación, un altro film che seminava tra le tematiche quella del tradimento, della vendetta, dell’assenza paterna, del cinema nel cinema. Da Federico Fellini (Otto e mezzo) a Woody Allen (Harry a pezzi) fino al nostro Marco Bellocchio (Il regista di matrimoni), i registi che parlano di sé e del loro non facile mestiere danno fiato ad una malinconia affettiva urgente, molto profonda e personale, e perciò a volte magmatica e scomposta. A volte, grazie ad un accumulo di suggestioni e ad un inarrivabile talento visivo, come nel caso di Fellini, può uscirne un capolavoro; altre volte si rischia di degenerare in un circolo vizioso autoreferenziale.
Diciamo che Almodóvar si situa nel mezzo, perché è comunque un grandissimo autore, con un senso dello spettacolo molto spiccato, abilissimo creatore di atmosfere struggenti e addirittura magnifico nel comporre un ritratto della Spagna che, film dopo film, emerge sempre peculiare e sorprendente, lontanissimo da facili schemi e riduttive stilizzazioni. È anche vero che il gioco del cinema nel cinema alla lunga stanca ed anche le intenzioni buone rischiano di perdersi per strada. Dal film, infatti, meno discutibile di altri e in cui però non manca la solita visione della vita per cui l’unica bussola da seguire è quella delle passioni, esce una domanda di senso molto interessante che purtroppo trova una risposta solo temporanea e consolatoria. La famiglia classica, è noto, non trova spazio nelle intese comunitarie dei personaggi dei film di Almodóvar, ma qui più che altrove si registra un desiderio insoddisfatto di quotidianità e stabilità, e il rimpianto per figure genitoriali – soprattutto paterne – assenti o mancate. Allora andava sviscerato più a fondo il rapporto tra Mateo, il regista cieco, e Diego – il figlio della sua agente a cui fa da mentore che in lui trova una figura paterna vicaria. Come anche non si risolve, neanche a livello narrativo, il desiderio di rivalsa che ha il giovane filmaker nei confronti del padre che ha schiavizzato lui e sua madre. Gli “abbracci spezzati” del titolo, insomma, si possono ricomporre secondo l’autore grazie alle immagini del passato che ci guardano. Così la nostra vita, in sala di montaggio, può essere risistemata dando il giusto peso e la giusta definizione agli eventi capitatici e a cui non abbiamo ancora dato un senso.
L’idea di non buttare il proprio passato ma di rivederlo e rimontarlo con una nuova angolazione si presta a sviluppi interessanti e propositivi ma il film, nel suo complesso, rimane paradossalmente irrisolto perché, non svelando ai personaggi il segreto più importante che li riguarda, non chiude il cerchio dei rapporti tra realtà e sua rappresentazione, verità e finzione, vita e cinema.
Raffaele Chiarulli