Philip Goodman è cresciuto con un’educazione ebraica molto rigida, in un rapporto con la religione di totale sudditanza; una volta adulto Goodman ha deciso di votare la sua vita allo smascherare presunti fatti paranormali in un programma TV. Un giorno viene però contattato dal suo mentore in questo campo dello smascherare superstizioni, che era scomparso in maniera misteriosa e gli affida tre casi impossibili da risolvere. Tre casi che metteranno in crisi il rapporto con la realtà (e l’irrealtà) di Goodman, andando a scavare dentro la personalità di Goodman stesso, rivelando misteri, inquietudini e nodi irrisolti.

Ghost Stories è tratto da un grande successo teatrale degli stessi Jeremy Dyson e Andy Nyman, che si cimentano con successo nel passaggio dal palco alla sala in veste di registi, sceneggiatori (e Nyman anche come attore protagonista: ha alle spalle una carriera da attore, come nel recente film L’uomo sul treno). Il film si inserisce nel filone tipico della tradizione orrorifica britannica del film a episodi (che ha la sua radice nella narrativa gotica inglese), la tradizione della Amicus (casa di produzione degli anni 60-70) di film come La morte dietro al cancello, Le cinque chiavi del terrore, La bottega che vendeva la morte, e prima ancora negli anni 40 il capolavoro della Ealing Incubi notturni. La formula di questi film è semplice: un filo conduttore più o meno esile lega tra loro episodi del terrore di poche sequenze caratterizzati da grande tensione. Ghost stories rispetta questa formula però con la particolarità di inserire a pieno la narrazione degli episodi – appunto i tre casi presentati, che corrispondono ad altrettanti blocchi narrativi – all’interno della cornice. La storia di Goodman non è solo un filo conduttore, ma man mano che si avvicina al finale ci si rende conto che quei tre fatti, in fondo, raccontano di lui in prima persona.
Il modello in questo senso sembra più nello specifico il già citato Incubi notturni (capolavoro che merita di essere assolutamente recuperato, non solo dagli amanti dell’horror) perché quel film aveva l’intuizione geniale di costruire una narrazione per episodi che si avvitava su sé stessa attorno al suo protagonista come un anello di Möbius e che rivelava man mano i punti di inquietudine irrisolta del cuore dell’uomo.
Il terrore in Ghost Stories non scaturisce da epidemie o antiche maledizioni, ma dai punti più misteriosi della realtà e degli affetti: ciò da cui nasce il terrore è la morte di una persona amata, un’incapacità di rapporto con i genitori, una figlia in coma, ma anche la stessa presenza del divino. L’interesse sta proprio qua, in questi temi viscerali che si avvitano sul protagonista, senza arrivare a una qualche risposta, ma ad un loop disperato che nel finale geniale lascia all’interpretazione di chi guarda: tutto ha un senso razionale o è un feroce e ironico epilogo voluto dal destino?
Tutto questo in un film che non rinnega il suo genere, fa fare diversi salti sulla sedia e mette una discreta angoscia nei tre episodi, che sono tre gioiellini di tensione (e che hanno il pregio di non guardare mai il male in faccia, staccano sempre prima di “mostrare il mostro”). Inoltre lo spavento richiesto dal genere è condito con abbondante ironia tipicamente british, nelle caratterizzazioni dei personaggi (soprattutto quello di Martin Freeman) e nell’accumulo grottesco delle situazioni. Oltre ad essere un film di una sua profondità Ghost Stories è anche parecchio godibile (sopratutto per gli amanti dell’horror). Insomma, è un film che merita di essere visto.

Riccardo Copreni