Jerome Morrow, aspirante cosmonauta presso la base spaziale di Gattaca, è chiamato a partecipare ad una missione di un anno per Titano. Dotato, diligente, in salute, con un Q.I. superiore alla media, egli si presenta come il perfetto esempio di essere umano “Valido”, ovvero concepito artificialmente con un codice genetico senza difetti. Ma non tutto è come sembra. Per il mondo in cui vive, la vera identità di Jerome è infatti molto meno interessante: nato Vincent Freeman, l’uomo è in realtà il frutto di una gravidanza naturale, e non sarebbe dunque abilitato per poter svolgere un ruolo di rilievo come quello di navigatore spaziale. Con la complicità dell’autentico Jerome Morrow (che gli fornisce campioni di sangue, urine, capelli ecc.), Vincent sfida le regole ideologiche imposte dalla sua società e si finge un Valido, nel tentativo di realizzare il sogno di una vita, esplorare lo spazio. D’altra parte, nessuno penserebbe mai che un uomo nato naturalmente possa riuscire ad eludere per anni i continui controlli del DNA e a possedere capacità anche superiori a quelle delle giovani promesse concepite in provetta. Agli occhi di tutti, un Non Valido è una creatura imperfetta a priori, su cui non vale la pena scommettere. E se non fosse così?
Il tentativo di controllare la formazione di un essere umano, limitandola entro certi canoni predefiniti, ha come scopo ultimo la creazione di una sorta di “uomo perfetto” che primeggi in ogni campo: l’idea è che un mondo popolato da sole persone di questo genere abbia molte più probabilità di progredire. Indirizzata teoricamente verso progetti ambiziosi, quella di Gattaca (curiosità: tra i produttori del film c’è Danny De Vito) si configura in realtà come una società chiusa, debole, perché mossa soprattutto dal terrore nei confronti di ciò che non è conoscibile: rifiuta di valicare i confini dettati dalla scienza (l’ingegneria genetica e la statistica in particolare), perché pensa che al di là di essi sia “il caso” o “il vuoto”. È una società che si fonda sull’uomo ma paradossalmente non ha fiducia nell’uomo, e soprattutto nelle possibilità (non tutte calcolabili o misurabili) che il mondo offre per sua natura. Lo spazio sognato da Vincent rappresenta quell’aspetto della realtà che trascende la conoscenza umana, e il suo desiderio di esplorarlo, ciò che, più del DNA, rende uomo un uomo.
Prima prova di regia di Andrew Niccol, anche sceneggiatore (suo lo script di Truman Show). Ogni elemento del film tende ad evocare il senso di inquietudine e claustrofobia che caratterizza il futuro di cui si parla: la fotografia dipinge le scene secondo sfumature di giallo o di blu; l’ambientazione è asettica e impersonale, caratterizzata da arredamenti minimalisti; a composizioni in profondità che valorizzano la monotonia degli spazi, spesso si alternano campi e controcampi ravvicinati nelle scene di dialogo (spesso occasione di angoscia per il protagonista). La stessa recitazione è volontariamente improntata a una freddezza che assimila le persone ai robot. Numerosi i riferimenti (forse un po’ didascalici) alla genetica o alla scienza in generale: si va dalla scala in casa di Jerome a forma di DNA, al nome del personaggio di Uma Thurman, che richiama quello di un astronomo del Seicento. Lo stesso nome “Gattaca” deriva dalle iniziali delle basi azotate del DNA (guanina, adenina, timina, citosina). Altre “spie” sono rintracciabili nei nomi dei personaggi di Ethan Hawke e Jude Law: “Freeman” significa “uomo libero” e “Eugene” (il nome adottato da Jerome una volta ceduta la propria identità) significa “ben nato”. Ma l’uomo libero, spinto dal suo desiderio, è più grande del “ben nato”: come conferma la sequenza più bella del film, quella della gara “impossibile” tra i due fratelli. Scena rivelatrice del senso dell’opera, piccolo cult di fine anni 90 che – pur con qualche limite – rilanciò nel cinema la fantascienza più “alta”: quella che, raccontando di un futuro immaginato, ci parla del presente.
Maria Triberti