Upin, fotografo affermato, si reca in un villaggio del Bengala occidentale per effettuare un servizio sulle condizioni di vita delle donne tribali. Colpito dalla bellezza di una giovane di nome Gangor, l’uomo la fotografa nell’atto di allattare il proprio bambino: la pubblicazione dell’immagine in prima pagina suscita clamore e scatena la violenta reazione della società in cui vive Gangor.
Prima coproduzione italo-indiana, la pellicola è liberamente tratta dal racconto Choli ke peeche della scrittrice e attivista bengalese Mahasweta Devi. Come il soggetto originale, il film è mosso dal nobile intento di far luce su un’India “che non fa notizia”, ovvero quella dei villaggi tribali, abitati da 90 milioni di persone vittime di continue violenze e soprusi compiuti dalla polizia. Al tema sociale si aggiunge una riflessione sul potere dell’informazione, un’arma a doppio taglio che, se usata male, rischia di ottenere un effetto contrario a quello previsto: così, malgrado le buone intenzioni dell’ingenuo Upin, la seminudità di Gangor non è accolta come la metafora di una bellezza da preservare ma è scambiata per pornografia da un mondo segnato dal tabù del corpo femminile.
Il film di Italo Spinelli sembra condividere col suo protagonista una difficoltà comunicativa, e i buoni propositi che lo animano non emergono in modo convincente per colpa di una sceneggiatura debole e confusa, dialoghi sterili e personaggi non ben delineati di cui si fatica a capire le motivazioni. I tentativi di approfondimento si risolvono in spiegazioni didascaliche, come il paragone tra la visione della donna e l’interpretazione delle sculture erotiche, o in discorsi più retorici che realistici, come il confronto tra Upin e il suo assistente sul valore della fotografia (ma anche lo stesso finale). La trattazione di un tema così delicato meritava sicuramente una cura maggiore.
Maria Triberti