Con la storia vera raccontata in Frost/Nixon il cinema americano contemporaneo si conferma capace di guardare alla storia recente del proprio paese e di trarre da questa delle lezioni importanti, utili per leggere il presente. Lezioni, queste, racchiudibili in archetipi da utilizzare come modelli in un catalogo dell’immaginario.,Adattando per il grande schermo un proprio testo teatrale, lo sceneggiatore Peter Morgan (cui si deve, tra l’altro, la fondamentale sceneggiatura di The Queen) ha visitato l’America della fine degli anni Settanta (il periodo che mette il sigillo al movimento della contestazione) rilevando, attraverso la lente della televisione (che, come dice il personaggio di Sam Rockwell, semplifica e in un solo fermo immagine può decretare la caduta di un uomo pubblico), almeno tre istanze fondamentali. In primo luogo, mostra la televisione nell’azione di legittimarsi come pubblico tribunale. In secondo luogo, evidenzia il mutamento per cui da un certo punto in poi si dette credito alle inchieste giornalistiche condotte – anziché dai giornalisti di professione – dai professionisti dell’intrattenimento. Infine, registra l’altro grande processo in atto, quello della personalizzazione della politica, che aveva vissuto un momento cruciale (come detto in un dialogo del film) nella sfida televisiva tra lo stesso Nixon e John F. Kennedy alle elezioni del 1960. Oltre a dare riconoscibilità ai volti, accessibilità ai personaggi e collaborando a velocizzare la crisi della fiducia nelle istituzioni, questo processo di personalizzazione – ed è la nota in più che la sceneggiatura aggiunge alla Storia – ha consegnato anche una dignità ai perdenti ed una grandiosità alle loro sconfitte.,Nixon, e qui il merito va condiviso con il regista Ron Howard (che guarda – con gli occhi di Frost – con pietà al presidente americano che gettò l’America nella vergogna del Watergate) e l’interprete Frank Langella, è una figura meno superficiale rispetto a quella che molti altri film ci hanno consegnato, perché possiede l’elegante tragicità di un personaggio shakespeariano; sia pure – e così sintetizziamo in una frase le tre istanze di cui parlavamo prima – letta nella chiave della “politica come spettacolo”, chiave che il regista evidentemente adotta, decidendo di girare le scene dell’intervista come se fossero quelle di un incontro di pugilato. Se è possibile una grandiosità nella sconfitta, è cosa che appartiene ai miti. L’America, che ne ha pochi perché è un Paese giovane, ha bisogno anche di quelli negativi. ,La cosa più interessante del film (sostenuto da un grandissimo cast: oltre a Langella, Michael Sheen che è Frost, i suoi collaboratori Sam Rockwell, Oliver Platt e Kevin Bacon nei panni di un braccio destro di Nixon), però, è un’altra ancora: cioè che la vera sfida non è quella tra i due contendenti, ma quella di entrambi contro i contesti da cui provengono. Così Frost duella (rischiando personalmente, oltre alla faccia, anche i suoi soldi) contro l’establishment televisivo che lo sottovaluta e Nixon (che sempre per soldi accetta la sfida) contro il popolo degli Stati Uniti che non gli ha perdonato i suoi errori. Il cuore del film è questo: la lotta tra Frost e Nixon non è quella dei figli contro i padri ma quella di un modo moderno contro uno superato di intendere la politica (ma che in entrambi i casi ha nel mercato un fattore fondamentale): questo permette ai duellanti di comprendersi, stimarsi o compatirsi reciprocamente, e giungere alla conclusione – nonostante alla fine un vincitore ci sia come anche un perdente (toccante la confessione finale sul tradimento del proprio paese) – che nel mondo che sta cambiando ognuno sarebbe pronto per fare il mestiere dell’altro. L’obiettivo è quello, identico, di acquistare il consenso delle masse. Poi si può scegliere se vendere solo fumo oppure la verità.,Raffaele Chiarulli