Nati e cresciuti in una periferia in cui domina la legge del narcotraffico, Manuel e Driss erano come fratelli. Da adulti però finiscono per prendere strade opposte: Manuel ha scelto di abbracciare la vita del criminale, Driss l’ha rinnegata ed è diventato un poliziotto. Quando il più grande affare di Manuel va storto, i due uomini si incontrano di nuovo e si rendono conto che entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere nei loro mondi. Nonostante l’odio, fra tradimenti e rancori, riscoprono l’unica cosa rimasta a unirli nel profondo: l’attaccamento viscerale al luogo della loro infanzia.
Presentato alla Mostra di Venezia 2018, Fratelli nemici – Close Enemies fece storcere il naso: quando un cosiddetto film di genere (d’azione) finisce in concorso c’è subito chi si lamenta, e si chiede cosa ci faccia (quando poi non si dice nulla da anni su horror, documentari, film animati …). In effetti il film non è il classico film d’autore (anche se del francese David Oelhoffen anni fa si vide sempre al Lido un “vero” film da festival, il bel Loin des hommes con Viggo Mortensen, mai uscito in Italia). E sembra avere meno ambizioni di tanti film con cui concorreva a Venezia, ma anche più gusto per lo spettatore. La storia non è originalissima, con quei due fratelli di origine algerina nella classica periferia che si ritrovano su barricate opposte, ma è raccontata con grande intensità emotiva, grazie a un lavoro notevole di regia e montaggio. Colpisce soprattutto la figura del poliziotto (della Narcotici, proprio per sgominare i traffici che ha visto tante volte nei sui quartieri), reso alla perfezione da un ottimo Reda Kateb che regala dubbi e turbamenti al suo personaggio in conflitto col suo mondo d’origine. In realtà i due fratelli collaborano, in qualche modo. E di mezzo c’è un terzo, amico (e socio in loschi traffici) del fratello criminale ma un tempo anche del poliziotto (prima che lo diventasse: altro gran bel personaggio, ben servito da un credibile Matthias Schoenaerts.
Come sempre in questi film, ci saranno morti, tradimenti, colpi di scena e sentimenti forti, anche per via di un senso di appartenenza che diventa violento. Interpretato da ottimi attori anche nei ruoli minori (tutti con le facce giuste, a rendere bene il contesto), in cui hanno un sorprendente spazio anche alcuni personaggi femminili, il film dimostra che i francesi il genere polar (l’incrocio tra il poliziesco e il noir), qui virato decisamente verso il thriller action, lo sanno fare ancora molto bene. La tensione non manca, stile e montaggio sono adeguati alla storia; e si esce dalla sala decisamente soddisfatti. Certo, sarebbe stato bello vederlo in mano a Jacques Audiard e vederlo passare da buon film a un’opera memorabile. Ma su temi non troppo lontani Audiard aveva già fatto Il profeta anni fa, e non è regista che si ripeta.
Antonio Autieri