Lei, Cluny Brown, è nipote di un idraulico e va a riparare un lavandino in un appartamento dell’alta società londinese, dove, per caso si trova anche il professor Bilinski, un intellettuale esule boemo. I due diventano subito amici, perché entrambi sono insofferenti ad un mondo che cerca di “metterli al loro posto”. Si ritroveranno poi, tempo dopo, in una villa di campagna lui come ospite, lei come cameriera, si proporranno di rimanere “solo amici”, ma…
Ultimo film diretto dal gigante della commedia americana Ernst Lubitsch e uno dei suoi film più dimenticati e incompresi, tanto all’epoca dell’uscita quanto oggi, probabilmente perché rimane uno dei più sinceramente anticonvenzionali e profondamente autentici film d’amore che si siano mai visti. È la storia di due persone a cui viene continuamente imposto di “mettersi al proprio posto” e perciò non vengono mai accettati, e soprtatutto amati, per quello che sono. È emblematica a questo proposito la scena in cui un farmacista sta per chiedere Cluny Brown in sposa, ma lei non riesce a resistere alla tentazione di sturare un lavandino otturato, e il farmacista rifiuta così di sposarla, perché «questa è una cosa che una moglie non deve fare». Il film grida un bisogno di un amore totale, di uno sguardo vero sull’altro e che possa amare l’altro totalmente: non è un caso che infatti il film sia ambientato nelle rigide convenzioni sociali della nobiltà inglese. Il fantasma della seconda guerra mondiale fa da sfondo e Lubitsch (come aveva già fatto nel precedente Vogliamo vivere!) sembra rispondere agli orrori del nazismocon uno sguardo più umano verso l’altro, a cominciare da chi abbiamo vicino.
L’epilogo dell’opera di Lubitsch è poi un leggerissimo saggio del talento del regista che inquadrando la vetrina di una libreria per due minuti riesce a suggerire la tenerezza di una vita di matrimonio. Insomma, una perla rara, meravigliosa e divertentissima (Lubitsch ha sempre fatto un cinema essenzialmente comico), da recuperare, se possibile nella preziosa collana di dvd “Il piacere del cinema”.

Riccardo Copreni