Seguendo la cronaca nera dalle pagine locali de Il Mattino di Napoli, il giornalista Giancarlo Siani inizia a scoprire gli altarini dei politici collusi con la criminalità e a pestare i piedi ai boss della camorra. Verrà giustiziato, a ventisei anni appena compiuti, il 23 settembre 1985.

È una ballata malinconica ma non disperata – scandita dalle note e dalle parole del Vasco Rossi di Ogni volta – quella che si danza e si consuma dentro e fuori Fortapàsc. Così, come un fortino assediato dagli indiani, Giancarlo Siani vedeva alla metà degli anni Ottanta la società civile di Torre Annunziata, provincia di Napoli, un avamposto già martoriato dal terremoto e dalla speculazione edilizia ed ora insanguinato dalla guerra tra bande di camorristi. Così la vedeva e così la descrisse, con franchezza e coraggio, sulle pagine di cronaca nera del quotidiano Il Mattino, alla cui pagina locale collaborava, da precario, in attesa di un’assunzione. Così, toccando i nervi scoperti di un maledetto imbroglio che vedeva collusi i politici con i camorristi, ci rimise la vita. Questo è il prezzo da pagare, lo aveva avvertito il caporedattore Sasà, passeggiando con lui sulla spiaggia di Napoli e schivando i cumuli di immondizia, per chi vuole fare il “giornalista-giornalista”. Per chi, sostanzialmente, si appassiona alla realtà, andando a fondo di quello che racconta, scoprendo cose che non dovrebbe, e non limitandosi – come fanno i “giornalisti-impiegati” – ad accontentarsi di restare in superficie. I secondi, l’insegnamento di questo pavido e pragmatico mentore è tutto qui, oltre allo stipendio portano a casa anche la pellaccia.

Dopo Gomorra di Matteo Garrone, ancora la Campania protagonista, e ancora una metafora di forte impatto a dare il titolo ad una pellicola. Eppure, rispetto alla pellicola tratta dal romanzo di Roberto Saviano, questo piccolo film del ritrovato Marco Risi (figlio di Dino, a cui l’ha dedicato) un pregio in più lo possiede: cioè che alla domanda se non ci sia più speranza (come chiede uno studente a Giancarlo Siani durante un incontro organizzato in una scuola), non dà necessariamente una risposta negativa. Come il professore di lettere di Mery per sempre (1988) e come il giornalista caparbio de Il muro di gomma (1991) – i due migliori film del curriculum di Marco Risi – anche il Giancarlo Siani di Fortapàsc non è un guerrigliero guidato da un’ideologia e neanche un romantico inebriato da un ideale: è un uomo sorretto dalla passione autentica per il proprio lavoro e guidato da un amore altrettanto forte e sincero per la verità. Una verità che può sopravvivere anche ai suoi martiri.

Scritto a sei mani dal regista, dal giornalista Andrea Purgatori e da Jim Carrington, Fortapàsc ha alcuni peccati veniali (l’irrisolutezza della sottotrama sentimentale) che si fanno largamente perdonare grazie ad una messa in scena asciutta ed antiretorica e ad una compagine di attori all’altezza del compito (su cui brilla, nel restituire la limpidezza di Siani, il sorprendente Libero Di Rienzo). Molti i pezzi di bravura, dalla sequenza della sparatoria tra i vicoli di Torre Annunziata, al movimento di macchina che impedisce a Siani di vedere chi lo ha schiaffeggiato nel bar, che rimane improvvisamente deserto, come un sinistro e inquietante presagio. Da ricordare anche il montaggio alternato tra la riunione dei caporioni mafiosi e la seduta del consiglio comunale, e la scena del ritrovamento di un cadavere nel parco acquatico abbandonato. Su tutte, però, resterà più impressa la fluida discesa notturna di Siani verso il suo destino ineluttabile, in una Napoli di fine estate stranamente silente e quasi rassicurante nella sua quiete prima e dopo la tempesta.

Raffaele Chiarulli