La squadra municipale dei vigili del fuoco di Prescott, Arizona, insegue gli incendi boschivi più pericolosi della zona per farsi certificare come unità hotshot: un riconoscimento onorifico al valore della squadra che autorizza la gestione in primissima linea di tutti gli incendi più gravi sull’intero fronte nazionale. Alla storia collettiva del team, intrecciata con le vite dei singoli componenti dell’unità, si aggiunge la vicenda di Brendan McDonough, giovane recluta con un passato da tossicodipendente in cerca di redenzione.

C’è un tanto di virilità al chilo nel nuovo film di Joseph Kosinski come non se ne vedeva dai durissimi anni 80, fatti di film d’azione dove il sudore si mescolava con il tipico cameratismo degli invincibili corpi armati americani. In Fire Squad non si parla forse di corpi armati, ma la sostanza cambia di poco visto che l’intera struttura del film si fonda su un immaginario militaresco, spesso in voluto richiamo a quei war movie patriottici – e un po’ retorici – che hanno fatto tanto emozionare l’America. La dinamica è quella: un gruppo affiatatissimo di soldati, qui con piccone in spalla e tuta ignifuga, pronti a combattere letteralmente il fuoco nemico per difendere famiglia e collettività ed essere proclamati eroi. La circostanza si fa ancora più seria se pensiamo che il film nasce direttamente dalla storia vera dell’unità Granite Mountains, prima squadra municipale nella storia americana dei vigili del fuoco ad aver guadagnato la certificazione hotshot nel 2005.

Eppure in questo particolarissimo caso il copione forse prevedibile del macho americano che combatte le forze della natura è di supporto ad una storia d’azione che sa anche essere intimistica e di formazione: un granitico Josh Brolin nei panni di Eric Marsh, supervisore capo e mentore dei suoi ragazzi, non si limita a interpretare il duro senza paura che guida i suoi alla meta, ma si lascia andare a dubbi e tenerezze in scene familiari perfettamente orchestrate grazie a un’impeccabile sintonia con Jennifer Connely, qui nei panni della moglie Amanda. La crescita e rinascita del giovane ex tossicodipendente McDonough (il sempre bravo Miles Teller) viene sì condotta a suon di flessioni e rimproveri, ma è anche accompagnata dalla costruzione di amicizie vere che non mancano di recuperare dimensioni anche esistenziali per nulla scontate: si acquisisce così una certa familiarità con i protagonisti, che pur nella tipicità dei loro caratteri non scadono mai in una banalità unidimensionale.
Il comparto tecnico eccelle soprattutto nella fotografia (del cileno Claudio Miranda, Seven e Vita di Pi nel suo curriculum) e nella gestione delle scene in cui la componente umana è letteralmente immersa nelle lingue di fuoco, capaci di far trattenere il respiro in più di un’occasione. Paradossalmente la dimensione in cui Kosinski si ritrova meno a proprio agio è proprio quella della pura azione: la ripetizione dello schema del salvataggio da svariati incendi che vediamo susseguirsi sullo schermo non sempre riesce a trovare combinazioni nuove o accattivanti, perdendo così quel ritmo tipico dell’action movie e stancando lo spettatore ormai abituato al ritornello. Il finale, un po’ frettoloso in confronto al respiro del film, ci avrebbe potuto concedere forse qualche momento di retorica in meno e di maggiore profondità, a coronamento di quel percorso introspettivo attraverso il quale siamo stati accompagnati dai protagonisti. Piccole sbavature su un’opera in complesso di ottima fattura, in grado di mostrare quanto al di là della forza e del coraggio sia l’amore il più grande super-potere che rende l’uomo un eroe.

Maria Letizia Cilea