Nel dicembre 1937, durante la guerra con il Giappone, la città cinese di Nanchino cade in mano all’esercito nemico, che si abbandona a efferatezze a scapito dei civili. Il becchino John Miller (Christian Bale), americano, è incaricato di seppellire padre Engelmann, rettore del collegio annesso alla cattedrale, ucciso nei bombardamenti. Tra le mura della cattedrale si rifugiano anche le giovani studentesse cinesi, allo sbando dopo la perdita del rettore, e un gruppo di prostitute. La convivenza tra loro non è facile, ma le rivalità cedono presto di fronte a una minaccia più grande: i soldati giapponesi minacciano la vita delle studentesse. Miller, travestito da prete per autodifesa, si vede trasformato involontariamente nell’unica speranza di salvezza delle sopravvissute.

Zhang Yimou – regista di Lanterne rosse e La foresta dei pugnali volanti – diresse nel 2011 questo costoso kolossal cinese, che in Italia fu distribuito direttamente in home video a partire dal 2014. Il film, però, intendeva aprirsi anche al mercato internazionale: la maggior parte dei dialoghi sono stati girati in inglese, e il ruolo da protagonista fu affidato a Christian Bale (che aveva interpretato un bambino straniero e smarrito durante l’occupazione giapponese nell’Impero del sole di Spielberg). In Cina, infatti, è particolarmente forte il bisogno non solo di raccontare le ferite della guerra, ma anche di farle conoscere al mondo: si pensi che negli anni sono stati girati diversi documentari ed è stato creato ad hoc un intero studio park con ambientazioni anni Trenta. Questo anche perché non sono mancate teorie negazioniste da parte dell’opinione pubblica giapponese. Il numero delle vittime del massacro di Nanchino, ad esempio, non è accertato: si stimano stupri, abomini e circa 200.000 uccisioni tra la popolazione.

I fiori della guerra, però, non adotta un taglio storico o biografico (come nel caso del biopic John Rabe, di Florian Gallemberger, sulla storia dell’industriale tedesco che prestò soccorso agli abitanti di Nanchino): pur ispirandosi a fatti reali, la pellicola è un adattamento dal romanzo 13 flowers of Nanjing della scrittrice Yan Geling. La crudeltà dei soldati appare con violenza sullo schermo per mostrare il calvario del popolo cinese, ma non diventa una pura esibizione: la colonna sonora insorge per ricordare la sacralità del corpo umano proprio nel momento in cui viene annientato. Le luci, i colori e i ralenti diventano quasi protagonisti delle scene, dando forte pregnanza alle immagini: gli abiti sgargianti delle prostitute e i giochi di luce della grande vetrata contrastano tematicamente con gli orrori e le macerie che circondano la cattedrale. Il mondo fuori dalle mura diventa un inferno, e pian piano niente sembra più capace di fermare il male che avanza: nemmeno le insegne religiose o l’innocenza rimangono inviolabili.

In alcuni punti, purtroppo, il film cede a un’eccessiva lentezza, e alcune scelte rischiano di indebolire una vicenda già di per sé molto ricca: alcuni dialoghi che vogliono spiegare troppo, la storia d’amore e i fantasmi del protagonista (gestiti tardivamente, ma che avrebbero potuto essere più interessanti), le gesta estreme di uno dei pochi soldati cinesi rimasti. Nonostante questi elementi, però, la storia rimane un potente racconto dell’umanità che sorge tra le macerie, in un mondo dove altrimenti vincerebbe la logica della brutalità e dell’individualismo.

Il cuore di questo film, infatti, sta proprio nel mostrare come le vite dei personaggi – le prostitute, l’americano e il giovane orfano accolto nel convento – possano trovare una redenzione e aprirsi al valore del sacrificio, senza che vengano banalizzati i dubbi, le fatiche e le paure che questa scelta comporta. Allora, anche le esistenze ormai sbandate possono trovare una nuova casa grazie ai rapporti più inaspettati e scomodi, con i padri e le sorelle trovati accanto.

Roberta Breda