Daphne è una giovane che fa dentro e fuori dal carcere minorile, per piccoli furti da “ragazza cattiva”, che assale coetanei con decisione e minacce fisiche per portar loro via preziosi cellulari. Furti su commissione, per avere due soldi in tasca, magari per comprarsi quattro cose al supermarket. Tra le detenute fatica ad avere amiche, per il suo carattere scontroso (ma le altre non sono da meno, con risse frequenti). I maschi sono un mondo separato, in quel luogo: ma nei rari momenti, a volte rubati, di vicinanza nasce una simpatia e poi l’amore con Josh, giovane detenuto per rapina. Un amore che si nutre di sguardi da lontano, da finestra a finestra, e di lettere che si scambiano di nascosto. Ma quali prospettive ci sono per due ragazzi che, anche quando le cose sembrano mettersi bene, tendono a rovinare tutto?
La storia di Fiore, terzo film di Claudio Giovannesi presentato a Cannes 2016 nella sezione autonoma Quinzaine des realisateurs, inizialmente può destare il sospetto del già visto. Quanti film sul disagio sono passati, anche di recenti e soprattutto tra i giovani autori italiani, sui nostri schermi? Quel mondo di violenze, di clandestinità (peraltro strane: sono vietate le lettere tra ragazzi e ragazze, ma due ragazze vivono una loro storia d’amore nella stessa cella, apparentemente senza doversi nascondere davanti a “secondine” ed educatori), di soprusi, di tentativi di redenzione che cadono ogni volta in errori già compiuti ricordano altre pellicole. Eppure Daphne e Josh si ritagliano un loro spazio, grazie a due giovani attori esordienti – praticamente loro omonimi – che rendono incredibilmente “veri” i loro personaggi, meglio di qualsiasi documentario. Lo sguardo di Giovannesi, aiutato da una fotografia volutamente povera di Daniele Ciprì (tra i più noti direttori della fotografia, e anche regista in proprio) e da uno stile “alla Dardenne” che mette la macchina da presa addosso ai suoi personaggi, ci presenta due ragazzi che si trovano su strade sbagliate ma cui nessun errore può togliere un desiderio di bene, di libertà, di speranza per il futuro. Come un fiore nel deserto. Per questo i loro continui sbagli, anche in un finale che a tratti fa sorgere legittimi dubbi sulla credibilità di alcune loro azioni, fanno sorgere più struggente tenerezza che condanna. Un film non esente da difetti, soprattutto in una storia con pochi fatti e molti silenzi (con la “furbizia” a volte di appoggiarsi a belle canzoni come “Sally” di Vasco Rossi), ma in cui un plauso particolare lo merita Valerio Mastandrea, che ha coprodotto il film e che interpreta il padre della ragazza: un piccolo ruolo, di padre che a sua volta dopo i suoi errori di ex detenuto in libertà vigilata, cerca di ripartire e sconta parecchi sensi di colpa per quanto la figlia sembra aver “imparato” da lui.
Antonio Autieri