Sembra inizialmente un semplicissimo caso, quello affidato al vice-ispettore Stucky: un uomo, il ricco e stravagante conte Desiderio Ancillotto, si è ucciso in maniera “plateale”. E invece per lui ben presto il caso si complica, perché al suicidio di quel conte che amava la sua cantina e le sue vigne (e che certo non è dispiaciuto a chi lo detestava), fa seguito la morte di un industriale cui proprio il conte l’aveva giurata insieme ad altri “colleghi” inquinatori della zona. Ma chi ha preso sul serio la “maledizione” di Desiderio? Stucky, che deve tener testa anche a un capo prossimo alla pensione insofferente alle grane con pezzi grossi locali, dovrà indagare tra enigmi, segreti del passato, dolori inconfessabili, personaggi strani e battaglie per la difesa del territorio e delle sue tradizioni.

Dal romanzo omonimo di Fulvio Ervas, il veneto Antonio Padovan (una carriera avviata nel design e come regista di corti a New York) ambienta tra i paesini sulle colline del Prosecco e Treviso un giallo inconsueto, in cui si avverte la conoscenza di un mondo preciso e il protagonista e alcuni personaggi sono ben tratteggiati. A cominciare dal suo ispettore Stucky, stranissimo mix tra origini venete e persiane (per via di madre) che deve far fronte alle sue ansie personali (e a uno zio iraniano affettuoso ma invadente): a dare credibilità a questo poliziotto corpulento e gentile, attaccato in modo quasi morboso alla memoria dei genitori defunti tanto da non toccare le loro cose, c’è l’ottimo Giuseppe Battiston. Come in altri film analoghi, si vede la provincia italiana con la sua bellezza e gli interessi economici e le grettezze che rischiano di soffocarla (a tratti, per esempio, Finché c’è Prosecco c’è speranza ricorda il bellissimo esordio con un malinconico “noir” di un altro regista veneto: quel Notte italiana che trent’anni fa rivelò il talento del mai troppo rimpianto Carlo Mazzacurati). E ci sono i misteri, come simboleggiano bene le due stanze segrete che vediamo in due contesti differenti. E il “matto del villaggio” che cura le tombe e parla con i morti: una figura suggestiva per un’altra bella prova del sempre bravo Teco Celio. Ma si fanno apprezzare anche Roberto Citran nei panni del superiore di Stucky, Babak Karimi in quelli dello zio, e il grande Rade Serbedzija (nella sua ricchissima filmografia, non pochi i film italiani tra cui pochi anni fa Io sono Li di Andrea Segre) nel breve ma fondamentale ruolo del nobile suicida.

Non tutto è bene a fuoco, alcuni personaggi – soprattutto quelli femminili – rimangono un po’ indefiniti, e la stessa soluzione del giallo non soddisfa del tutto. Ma è innegabile che Finché c’è Prosecco c’è speranza susciti simpatia nello spettatore non prevenuto: sarà per la bravura degli interpreti citati, o per la sincerità di Padovan nel raccontare con amore una realtà importante – che rischia di essere spazzata via – e nel difendere un modo di vivere la propria terra che sa prendersi i propri tempi. Ed è apprezzabile che lo si faccia con la chiave del giallo, che ogni tanto prova a tornare in auge nel cinema italiano. E con un finale in cui, oltre al male, emerge anche la ruvida bonarietà di personaggi che è bello aver conosciuto.

Antonio Autieri