La storia dell’omonimo romanzo autobiografico del giornalista Massimo Gramellini (best seller recente e clamoroso) sembrava distante dall’universo cinematografico di Marco Bellocchio: troppo emotiva la storia, per il cinema così cerebrale del regista piacentino. Che sul rapporto con la madre ha spesso imbastito opere acri e contestatrici, da I pugni in tasca a L’ora di religione, tanto che per questo progetto su commissione non sembrava la scelta ideale. Bellocchio, in effetti, raffredda la materia raccontata; ma fino a un certo punto.

Il film si apre, nella Torino degli anni 60, con una bella scena del piccolo Massimo che a 9 anni balla allegro con la mamma in casa. Poi però, una notte, lei lo saluta furtivamente («fai bei sogni», gli sussurra) e sparisce dalla sua vita. Gli dicono che è morta per un infarto fulminante, ma non gliela fanno vedere. Massimo soffre, vorrebbe ribellarsi a una morte che vive come un’ingiustizia (al funerale grida alla bara: «Mamma, esci fuori, ti stanno portando via!»). Il padre, già distante, cerca di proteggerlo ma non riesce a compensare l’improvviso vuoto affettivo.

Il bambino non elaborerà mai il lutto per la perdita di un rapporto così fondamentale per lui: da adolescente si fa domande, e chiede ragioni a un professore e sacerdote che non sa dargliele; da ragazzo delude una fidanzata; da adulto, ormai giornalista affermato, rivede in una guerra e nelle sue violenze e in ogni altro frangente (anche il padre che ha una nuova storia) conferma della durezza dell’esistenza. Poi una donna si affaccia alla sua vita e potrebbe dargli conforto, ma un segreto che esplode in ritardo rischia di distruggerlo per sempre. Cosa scegliere: la disperazione o la possibilità che la vita offre, magari dando consigli dalle pagine del suo giornale ad altri che soffrono come lui?

Ventiduesimo film del regista ormai 77enne, Fai bei sogni trova in alcune scelte stilistiche (la fotografia spenta e decolorata, i personaggi dai volti costantemente tirati e rigidi) il perimetro di una storia dolorosa, resa ancora più angosciante dall’impressione del protagonista di non esser stato mai messo al corrente di come davvero andarono le cose. Alcune libertà sono felici (il riferimento pauroso e intrigante alla figura di Belfagor, personaggio di una serie tv di successo degli anni 70), i continui salti nel tempo rendono invece – come spesso succede con Bellocchio – non sempre scorrevole il racconto, e alcuni episodi non sono ben gestiti (la guerra, la riunione di redazione, l’imbarazzante ballo scatenato nella villa…). In generale, convince di più la narrazione su Massimo bambino (grazie a un eccellente, giovanissimo Nicolò Cabras) e sulla sua famiglia, che la parte con il giovane e poi l’uomo interpretato da un pur bravo e sofferto Valerio Mastandrea (che però, per quanto spenga la sua cadenza romana, difficilmente può passare per un torinese; anche perché da bambino il suo personaggio ha una netta “parlata” sabauda). Mastandrea fa bene il suo compito, di uomo permeato dal dolore e colpito da attacchi di panico che lo portano a iniziare un rapporto con una bella dottoressa francese (la solare Bérénice Bejo): ma siamo sul piano della “recita”, più che dell’incarnare davvero un personaggio. Forse l’unico momento forte – e di una retorica che è più di Gramellini e pochissimo di Bellocchio – è quello della lettera in risposta a un lettore, in cui Massimo finalmente sembra iniziare a sciogliere quel grumo di indicibile. Un momento, appunto, in un film che vive di sprazzi un po’ isolati, senza riuscire a diventare un’opera densa e coerente. E che pure alla fine non dispiace, nella sua natura “ibrida”, forse in particolare proprio agli spettatori più distanti da Bellocchio che ai fan che si ritrovano solo in parte.

Antonio Autieri