Gran parte del divertimento in Everything Everywhere All at Once (miglior film agli Oscar 2023) dovrebbe risiedere nell’ inventiva con cui Daniel Kwan e Daniel Scheinert (miglior regia agli Oscar 2023) hanno organizzato le loro bizzarre idee, in un insieme che vorrebbe essere coeso e comprensibile. Ma durante le quasi due ore e mezza del film in cui il duo di registi noto come “Daniels” mette in scena la squattrinata protagonista, un’immigrata cinese esausta e oberata di lavoro di nome Evelyn Wang (Michelle Yeoh, Oscar 2023 come miglior protagonista), attraverso un percorso esistenziale che dovrebbe essere elettrizzante e pieno di possibilità, l’esperienza per chi guarda potrebbe risultare anche faticosa e disorientante (d’altronde, con un titolo che tradotto fa “Tutto dappertutto e tutto in una volta” c’era d’aspettarselo un po’…).
Attraverso una serie di universi collegati, Evelyn non solo scruta le vite delle Evelyn che avrebbero potuto essere, ma assorbe anche i loro poteri per salvare la realtà stessa. La vediamo come una chef, una star del kung-fu e una donna normale in un regno in cui tutti hanno dei wurstel al posto delle dita. In un altro universo, la vediamo persino come un sasso dagli occhi finti: in una gag che dovrebbe essere umoristica ma al tempo stesso profonda, Evelyn e sua figlia (anche lei sasso) hanno un dialogo in completo silenzio scandito solo dai sottotitoli.
Ma cominciamo dall’inizio (se così si può dire): Evelyn nella realtà di questo universo è in un ufficio delle imposte. Seduta di fronte a lei c’è Deirdre Beaubeirdre (Jamie Lee Curtis, Oscar 2023 come miglior non protagonista), una funzionaria che le spiega con scarsissima empatia cosa c’è che non va nella sua dichiarazione dei redditi. Evelyn porta sulle sue spalle una serie di pesi insopportabili: suo padre malato, Gong Gong (James Hong), contrario a emigrare in America, la vede come un fallimento. Il suo matrimonio con il tenero ma infantile Waymond (Ke Huy Quan, il Data de I Goonies e Oscar 2023 come miglior protagonista) è sull’orlo del collasso, così come la loro attività di lavanderia a gettoni. E la relazione con sua figlia, Joy (Stephanie Hsu), è apparentemente irreparabile, come indicato dalla sua incapacità di presentare la partner di Joy, Becky (Tallie Medel), al padre come qualcosa di più di una “buona amica”.
Tali lotte quotidiane possono essere comuni a tante storie di immigrazione, ma ovviamente Everything Everywhere All at Once non è una storia di immigrati come tutte le altre. Quando Waymond, o meglio, un Waymond di un altro universo, contatta Evelyn, dicendole che ha bisogno del suo aiuto per sconfiggere la malvagia Jobu Tupaki, una donna che cerca di distruggere il multiverso (che nel suo universo è sua figlia…), il film esplode in una caleidoscopica profusione di deviazioni narrative sempre più bizzarre. E gran parte di questo avviene all’interno dei corridoi e dei cubicoli dell’ufficio delle tasse, che funziona come un surreale campo di battaglia in cui Kwan e Scheinert mettono in scena una serie di scene d’azione degne dei più funambolici scenari del Marvel Cinematic Universe.
Mentre Evelyn impara come accedere alle abilità e ai talenti del suo altro sé da tutto il multiverso, usando una tecnica chiamata “salto di verso”, il febbrile miscuglio di idee, generi, toni ed emozioni dei Daniels spinge il film ben oltre i confini del cinema tradizionale. Everything Everywhere All at Once è il regno di un’assurdità che si estende a tutto, dal salto di universo che richiede atti sempre più stupidi per essere avviato, alle numerose scene di combattimento del film che fanno impallidire La tigre e il dragone e tutti i film cinesi del genere wuxia.
Ognuna di queste scene d’azione, coreografate da Andy e Brian Le, ricorda tutto, da Matrix ai film di Jackie Chan, ai vecchi cartoni animati dei Looney Tunes; ma la sensazione è che la durata appesantisca un film curioso ma ingombrante, interessato molto meno ai suoi personaggi che a lanciare una serie di acrobazie, battute e idee, che non si sa quanto verranno raccolte da chi guarda. Anche se il successo straordinario negli Stati Uniti, oltre che sorprendente, apre molti interogativi su quelli che sono oggi i gusti del pubblico (giovane), con un outsider che forse ha ringiovanito di colpo l’Academy e i suoi gusti.
Nelle intenzioni degli autori, i caotici collage di immagini e idee di Everything Everywhere All at Once vorrebbero mantenere una rappresentazione coerente di una famiglia che impara a rimanere integra in un mondo iperstimolato e iperattivo, dove tutto spinge verso la solitudine e la depressione; ma riuscire a condividere con i registi questa ricerca di armonia nell’esperienza umana, attraverso il fluire confuso del film, richiede (lo diciamo fin d’ora) molta pazienza e forza di volontà a chi non si troverà immediatamente in sintonia con questa esperienza cinematografica.
Beppe Musicco
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