Mentre lavorano al celebre maxiprocesso – che metterà alla sbarra i capi di Cosa Nostra, e che decreterà definitivamente la loro elezione a nemici mortali della Mafia – nell’agosto del 1985 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono costretti a recarsi con le proprie famiglie, all’improvviso senza nemmeno poter fare le valigie, in una località segreta. All’Asinara, proprio accanto a un carcere di sicurezza: da cui la sensazione di essere loro, ingiustamente, in prigione; privati, con i loro cari, di una vita normale (non possono muoversi, né fare telefonate). Nel frattempo dovrebbero almeno concentrarsi sull’istruttoria: ma le carte del processo tardano ad arrivare, da cui pesanti sospetti di ostacoli al loro lavoro da parte di pezzi dello Stato che dovrebbero invece essere dalla loro parte.
Di Falcone e Borsellino, eroi civili della nostra Italia di cui spesso il cinema e la fiction televisiva hanno raccontato le gesta o la tragica morte (a breve distanza l’uno dall’altro, nel 1992), Fiorella Infascelli racconta una parentesi della propria attività, puntando quindi sugli aspetti personali, caratteriali, affettivi anche quando parlano – quasi sempre – del loro lavoro e del loro impegno. La regista sceglie la strada della libertà narrativa (i due magistrati non raccontavano nelle rare interviste mai troppo degli aspetti personali, soprattutto Falcone), rischiando però spesso il bozzettismo, e non riuscendo a restituire davvero i due personaggi che sembrano a tratti perfino caricaturali: soprattutto Falcone, interpretato dal pur bravo Massimo Popolizio, risulta nevrotico e quasi isterico, e fin troppo sopra le righe nei suoi tentativi di infrangere le regole, mentre la sua celebre ironia si traduce in battute umoristiche e freddure di scarsa efficacia (e non parliamo del mancato accento siciliano…); Beppe Fiorello, poi, se meglio del collega fa risaltare la sicilianità del suo Paolo Borsellino, non ha la ieraticità e l’autorevolezza (sembra troppo giovane, quando invece all’epoca il magistrato aveva più o meno la sua età).
Ovviamente ci si può commuovere in certi momenti (quando sta male la figlia di Borsellino, per esempio), soprattutto pensando col senno di poi alla loro fine; e sicuramente c’era del vero nel loro esorcizzare la probabile morte violente parlandone tra loro. L’amicizia tra i due era sicuramente un aspetto interessante da rappresentare, ma i dialoghi non sono all’altezza dei personaggi (riflessioni come «se potessi rinascere, vorrei essere un giardiniere» afferma Borsellino; senza contare i loro litigi da esagitati o le frasi di facile qualunquismo), le soluzioni spesso didascaliche e banali (il tuono sul mare placido, un carcerato che canta di notte e si scopre che è il capo della Camorra Raffaele Cutolo…), i personaggi laterali dei figli e delle mogli senza il necessario spessore. E questa debolezza narrativa mal si adatta a un film con pochissimi fatti, tutto giocato sull’attesa e sulla quiete prima della tempesta, che richiedeva un autore capace di far trasparire la Storia dentro la storia minima. E non una semplice illustratrice, di paesaggi e di persone che hanno un nome altisonante ma non evocano davvero quei grandi uomini di cui dovrebbe raccontare uno scorcio di vita. Tanto da far sorgere l’irritante sospetto che, più di un omaggio, si tratti dell’utilizzo di due grandi nomi solo “per fare un film”. Normale che di un eroe il cinema si impadronisca e faccia quel che ritenga opportuno: Falcone e Borsellino sono ormai diventati un sottogenere del genere “film di mafia”. Ma chi ne tratteggia la storia, anche solo una parentesi, dovrebbe aver cura di non rendere trascurabile il racconto, facendo diventare la sua opera un compitino scialbo e senza pathos. In sintesi, un’occasione persa.
Antonio Autieri