In una scuola superiore di Portland, nell?Oregon, due studenti con simpatie naziste acquistano su Internet delle armi automatiche. Con queste si recano nella loro scuola e fanno una strage.,L'elefante del titolo si richiama all'apologo buddista dei ciechi che cercano di descrivere un elefante solo attraverso quella parte che ognuno di loro riesce a toccare. Questo, secondo il regista Gus Van Sant, sta a significare che la realtà può solo essere descritta parzialmente, e che il senso ultimo delle cose (come di una tragedia, ad esempio), rimane oscuro e incomprensibile. Istintivo viene, osservando il film di Van Sant (vincitore dell'edizione 2003 del Festival di Cannes), il paragone con un altro titolo che ha voluto a suo modo indagare la strage: “Columbine”, di Michael Moore. Due film che si situano all'opposto del modo di fare cinema. Nell'opera di Moore, più vicina a un documentario che a un lungometraggio classico, il regista si getta con passione e sdegno nel tentativo di spiegare la strage con un indagine storica e sociologica del perché la popolazione degli Stati Uniti sia così ossessionata dalle armi, poi intervista i sopravvissuti, poi cerca di svergognare pubblicamente Charlton Heston, reo di essere testimonial dell?associazione dei tiratori americani. Al contrario, Elephant è caratterizzato da un distacco che sfiora il cinismo; stilisticamente ben fatto (ma sfiorando la perfezione fredda), con uno sguardo sul male che non è di orrore (come nel passionale e appassionato Moore), ma appunto da “entomologo cinico” e disilluso sul genere umano, fino a diventare quasi feroce. Ma un conto è parlare dell'assurdità del male, un altro (e sembra questo) dire che la realtà è assurda e inconoscibile (tanto che non c'è neppure una vera condanna del gesto e dei suoi responsabili). Così quel che resta è pura forma, un involucro vuoto e senza volto.,