E.T. – L’extraterrestre nacque come un film piccolo, a basso budget. Steven Spielberg aveva appena realizzato kolossal costosi e impegnativi (Incontri ravvicinati del terzo tipo e I predatori dell’arca perduta) e sentiva la necessità di un film personale, che parlasse direttamente al cuore degli spettatori. In questa vocazione intimista c’è il segreto di questo capolavoro: quando Spielberg ebbe la possibilità di fare il film che voleva, fece esattamente quello che volevano gli spettatori. Grazie a questa concordanza, E.T. divenne uno dei più grandi successi della storia del cinema, un campione d’incassi, una pietra miliare nella storia della fantascienza su grande schermo e nella storia degli effetti speciali. Fare un film “piccolo” e “personale” per Spielberg significò celebrare un inno struggente all’immaginazione e alla fantasia dei bambini, raccontare una favola moderna che facesse ridere e piangere allo stesso tempo, una storia universale che potesse andare come la freccia di Cupido dritta al cuore di chiunque. E.T. è un film spettacolare, realizzato senza la pomposità del kolossal ma con alta professionalità, con una sceneggiatura perfetta e solida (di Melissa Mathison), senza intellettualismi e divagazioni. Semplice come la verità e come i pensieri incorrotti di un bambino. Il tenero E.T. piace dagli 0 ai 100 anni, è una delle invenzioni del secolo, geniale e originale come Charlot di Chaplin. Uno dei pochissimi film dall’incasso multimiliardario che, pur prestandosi ad un seguito, non ha generato una continuazione o una trilogia – benché non mancarono ovviamente le imitazioni – rimanendo intatto nella sua purezza e perfezione (lo stesso Spielberg cadrà anni dopo nel tranello, realizzando un inutile sequel di Jurassic Park). Conquistò per la portata immaginifica di una visionarietà condivisibile e immediata e vinse quattro meritati Oscar; oltre agli effetti speciali, agli effetti sonori e al sonoro, fu premiata la colonna sonora di John Williams, un capolavoro nel capolavoro, divenuta una delle musiche più rappresentative degli anni Ottanta. Insieme al film gemello Incontri ravvicinati del terzo tipo (più mistico e meno fiabesco), E.T. ci ha riconciliato con lo spazio. Alien di Ridley Scott, nel 1979, aveva fatto tremare le platee di tutto il mondo, ed Hollywood sfruttò il riacutizzarsi della guerra fredda per rifare i classici del passato con gli alieni cattivi che volevano conquistare il mondo.
Il film di Spielberg presentò invece un nuovo modello di alieno, un compagno buono e benevolo, con un messaggio di pace, una mano tesa e una richiesta di aiuto. “E.T. telefono casa” diventò la richiesta di aiuto per eccellenza, del bisogno di comunicazione, del ritorno al nido. Si riconobbero nella morale di questa favola tutti gli adulti desiderosi di tornare bambini e tutti i bambini vogliosi di diventare adulti. Nascosto nell’armadio della camera dei ragazzi, in una scena diventata emblematica del cinema del regista, l’extraterrestre ascolta la mamma che racconta a Gertie, la sorellina di Elliott, la favola di Peter Pan, e partecipa a suo modo a quel momento familiare. La scena – che verrà citata letteralmente nel successivo A.I. con Pinocchio al posto di Peter Pan – dice tutto: la vocazione di Spielberg a raccontare storie e la sua capacità di affabulare lo spettatore; il cinema come “macchina della visione” e come spazio per la famiglia. L’incanto delle favole, infine, come formazione fantastica e sottotesto archetipico per le riletture moderne. Emerso dall’ambulanza come il Gesù risorto di Piero della Francesca, E.T. si congeda dalla terra e dal cinema con una promessa evangelica: “Io sarò sempre qui”.
Raffaele Chiarulli
Spunti tematici
La metafora del volo. La scena di E.T. in volo con i ragazzi sulle bici è entrata giustamente nella storia del cinema. Miracolo a Milano di Vittorio De Sica e Peter Pan di Walt Disney i precedenti illustri di questo decollo della fantasia. E.T. è il film in cui la poetica del regista si manifesta allo stato puro. E’ la vittoria dell’immaginazione, dei buoni sentimenti, dell’amicizia e della compagnia; la meraviglia non sciupata dalla fretta, lo sguardo rivolto speranzoso verso il cielo, il buio cosmico della storia che si illumina di un bagliore incandescente. E.T. è anche il Vangelo secondo Spielberg. L’extraterrestre “scende sulla terra, possiede poteri speciali, , è portatore di pace e di amore, ha una ristretta schiera di ‘apostoli’, muore intorno all’ora nona, risorge e ritorna in cielo” (Ezio Alberione), e Spielberg lavora sull’iconografia cattolica del “Sacro Cuore” e della creazione michelangiolesca (nella locandina).
La solitudine dell’infanzia. Lo sguardo di E.T. è lo sguardo dell’infanzia. Gli adulti nel film sono personaggi sfuggenti, poco delineati e molto stilizzati. Li vediamo ripresi sempre dalla cintola in giù, come nei cartoni animati della MGM dove il punto di vista è quello dei gatti e dei topi. “E.T” parla anche della difficoltà di comunicare tra adulti e ragazzi, tra genitori – il cinema di Spielberg insisterà sulla figura del padre assente – e figli. Solo dello scienziato che si arrenderà allo stupore e della madre di Elliott (anche lei, lasciata dal marito con i tre figli, è in fondo una creatura abbandonata) vediamo i volti. Per il resto E.T. è situato, per dirla con Nick Hornby, “da qualche parte attorno ai quattordici anni”, popolato da ragazzi perduti di un’isola che non c’è, a cui non resta, per essere ascoltati, che mettersi insieme e volare in bicicletta verso il sole. E’ il lib(e)rarsi delle anime semplici, di una purezza che il mondo adulto nasconde, ignora o nega.