Il film si apre con un funerale “danzante”, e già questo può lasciare perplessi. L’ambientazione è un paesino mediorientale isolato dal resto della nazione (che tutto fa pensare sia il Libano, anche se non viene mai nominato, non foss’altro che per le origini della regista Nadine Labaki) dalle montagne, da mine inesplose e dal ponte diroccato. Nel villaggio la bella proprietaria del bar-ristorante (interpretata dalla stessa Labaki), la vedova cristiana Amale, ama in silenzio il muratore musulmano Rabih, mentre i due gruppi religiosi (maschili) sembrano cercare solo un pretesto per provocazioni, risse e violenze, e le poche persone di buona volontà (quasi solo donne) cercano di vivere alla meno peggio, tra televisioni di cui disperatamente si cerca di captare il segnale e tentativi comici di distrarre i loro uomini da sentimenti bellicosi, per esempio invitando un gruppo di ballerine ucraine avvenenti e scollacciate. Ma la tragedia è dietro l’angolo, quando uno scontro tra fanatici fa una vittima giovane e innocente. Da qui la voglia di vendetta e il rischio del divampare di uno scontro sanguinoso.

Nadine Labaki, affascinante come attrice quanto sopravvalutata come narratrice-regista, come già in Caramel affronta un tema apparentemente difficile ma in realtà molto frequentato dal cinema contemporaneo – là la solidarietà tra donne sempre in un microcosmo di difficoltà sociali ed etniche, qui esplicitamente la convivenza difficile tra diversi gruppi religiosi – con un mix di sorriso e di dramma che stavolta le sfugge di mano. La commedia lascia il posto al grottesco e a tratti addirittura al musical; due generi difficili da maneggiare, anche per un livello complessivo di attori ben inferiore al gruppo di donne di Caramel. Se poi ci si mettono bruschi passaggi – dalla morte ingiusta di un ragazzo a un ballo tra donne in cucina mentre preparano un dolce “tossico” per intontire gli ottusi uomini del paese – il fastidio rischia di superare il livello di guardia, tra melensaggini, tirate patetiche («ci farete disgustare Dio») e situazioni che vorrebbero strappare un sorriso ma raramente ci riescono. E anche qualche spunto interessante si perde, fino all’ultima, metaforica, insistita scena finale che sorregge il titolo. Debole, come tutto il resto, nonostante questo film dalle conclusioni più semplicistiche che profonde abbia ottenuto una buona accoglienza critica e qualche premio che sembrano francamente generosi.

Antonio Autieri