Il titolo è quello di una bellissima canzone anni 60 di Bruno Martino, ma si fa fatica a ritrovare qualcosa che richiami all’atmosfera malinconica di quelle note, nel film di Paolo Franchi (prodotto da Nicoletta Mantovani, vedova Pavarotti). Franchi ha esordito al cinema con La spettatrice (2004) e aveva suscitato un certo interesse tra la critica e il pubblico, presto deluso dal successivo Nessuna qualità agli eroi (2007). In questo filone si inserisce anche E la chiamano estate, la storia di una coppia, Dino e Anna, sposata e innamorata, almeno a sentire le enfatiche dichiarazioni di Dino (Jean-Marc Barr), che però non vuole nemmeno sfiorare la moglie (Isabella Ferrari) che lo aspetta pazientemente. Dino preferisce frequentare prostitute che umilia e club di scambisti, dove partecipa a orge che lo lasciano psicologicamente distrutto. Per cercare di sgravarsi da questa senso di colpa, ricerca compulsivamente tutti gli ex della moglie, proponendo loro di incontrarla e riprendere la relazione (ovviamente suscitando stupore e ribrezzo negli interlocutori). Il film è stato accolto malissimo al Festival di Roma 2012 (all’anteprima stampa è stato rumorosamente contestato), il regista da par suo ha dichiarato che ha voluto gettare uno sguardo psicanalitico su una coppia che superasse la normale esperienza quotidiana della convivenza. Di psicanalitico però si vede ben poco (eccettuata una breve scena nella quale l’analista rimprovera il paziente), piuttosto il film si concede numerose scorciatoie per attirare il pubblico: scene esplicitamente pornografiche, o le tanto pubblicizzate scene di nudo della Ferrari, che sicuramente nel fisico porterà bene i suoi anni, ma la cui recitazione si limita a una sdraiata immobilità o a poche frasi smozzicate. Anche la presenza di altri attori come Argentero o Nigro si limita a poche scene del tutto irrilevanti. Una fotografia volutamente sgranata, al punto di far pensare agli spettatori che il proiettore sia fuori fuoco, un manierismo insistito, quasi a voler rimarcare in ogni istante la propria superiorità stilistica, e un finale tanto comodo quanto irritante, completano la visione di un’opera che veramente si fa fatica a capire a quale pubblico voglia rivolgersi.,Beppe Musicco,