Due partite è tratto dall’omonima pièce teatrale di Cristina Comencini (qui sceneggiatrice insieme al regista), un’applaudita commedia in due atti, di cui conserva quasi perfettamente il cast. I due atti sono ambientati trent’anni l’uno dall’altro, nel 1966 (con le tensioni del Sessantotto ribollenti ma ancora inesplose) e nel 1996 (quando certe dinamiche erano state ormai così digerite, da costringere la società italiana a ridefinirsi “seconda repubblica”). Nel primo atto le quattro mamme si trovano ogni giovedì pomeriggio per giocare a carte, mentre le figlie – nell’altra stanza – giocano “alle signore” e ritagliano dalle riviste femminili le foto di una idealizzatissima “Principessa Grace” (Grace Kelly). Una volta cresciute, nel secondo atto le quattro figlie si ritrovano nella stessa casa, per un meno rituale ma irrinunciabile bilancio generazionale.,L’idea di mettere a confronto due generazioni, non direttamente tra di loro ma ognuna all’interno di se stessa, a distanza – così che gli otto personaggi abbiano grossomodo la stessa età – era acuta. La commedia della Comencini forniva anche l’occasione di servire le carte ad alcune tra le migliori attrici del nostro cinema (raddoppiando il numero d’interpreti della pièce, dove le stesse quattro attrici interpretavano sia le madri sia le figlie). Fatte salve le buone intenzioni, il film ha due difetti principali. Innanzitutto si costringe, mettendo due film in uno, ad accelerare i tempi e a sciogliere troppo presto la tensione (per cui i prevedibili malumori sopiti esplodono troppo presto, per poi risolversi in un nulla di fatto). In secondo luogo, affidando ai personaggi otto caratteri completamente diversi, così che si possano bene distinguere (e così che le figlie possano assomigliare alle madri), spinge alcune pur bravi attrici a rischiare la macchietta (Massironi, Melillo) o la maniera (Cortellesi, Crescentini). Peccato, soprattutto perché il film (e prima ancora la commedia) si picca di dire “cose importanti” e di parlare dell’emancipazione della donna, del sogno svanito di una generazione, e insiste con dolente pertinacia sull’impossibilità di amare, di essere amati e di restare fedeli a coloro con cui ci si è uniti in matrimonio. Se fosse stata sviluppata, la tematica per cui ad una generazione che si è ribellata ne è seguita un’altra che non ha saputo vivere i frutti di quella ribellione, sarebbe stata interessante. Ma al momento di dare delle risposte e di fare una sincera disamina, devono intervenire una canzone di Mina prima, ed una poesia di Rilke dopo, per interrompere un chiacchiericcio fatuo, banale e un poco inconcludente.,Raffaele Chiarulli