In Drive my Car, Yûsuke Kafuku è un regista e attore di teatro in grave crisi dopo la morte dell’amata moglie. Accetta di dirigere una compagnia teatrale a Hiroshima dove in programma c’è la trasposizione di un grande classico: Zio Vanja di Checov. Per motivi assicurativi, la direttrice del teatro gli chiede di non guidare l’auto ma di farsi accompagnare da una giovane autista fino alla fine delle rappresentazioni. Sorpreso dalla richiesta, Kafuku accetta riluttante. Poco a poco, tragitto dopo tragitto, i due viaggiatori sciolgono le rispettive diffidenze fino ad arrivare a confessarsi drammi e tragedie che hanno caratterizzato le loro vite.
Tratto da un racconto di Murakami Haruki, Drive my Car di Hamaguchi Ryuske (Orso d’Argento alla Berlinale 2021 con Il gioco del destino e della fantasia) è sostanzialmente diviso in due parti. La prima, della durata di una quarantina di minuti, è dedicata alla vita di Yûsuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima) insieme alla moglie Oto (Reika Kirishima). Hanno alle spalle la tragedia della morte della piccola figlia; la superano apparentemente con una forte intesa sessuale che porta Oto a immaginare storie che poi diventano sceneggiature di successo. Kafuku soffre, però, per i tradimenti della moglie ma la sua morte per un’emorragia celebrale lo getta nel più profondo sconforto.
Questo lungo prologo, che si chiude simbolicamente con i titoli di testa, ci apre poi al cuore del film con il trasferimento a Hiroshima del protagonista. È molto legato alla sua auto, una vecchia Saab turbo 900 rossa in cui Kafuku si isola, medita, vive la sua solitudine ascoltando il nastro registrato dalla moglie con la trasposizione di Zio Vanja che lui deve mettere in scena. La Saab è più di un’auto per lui; lì si sente protetto e al sicuro. Il fatto che la direttrice del teatro gli imponga un’autista, lo vive come una violazione dei suoi spazi. Ma il cuore del film è proprio questo, il confronto tra il regista e la giovane Misaki (Tôko Miura). I due vengono da due mondi molto diversi ma sono entrambi chiusi e taciturni. Il silenzio però comincia a scalfirsi lentamente e i due viaggiatori scoprono di avere più di una cosa in comune, soprattutto un passato tragico (la morte della figlia e della moglie per lui, la morte della madre per lei). Si confessano la propria difficoltà di vivere, di andare avanti e il proprio senso di colpa. I muri cadono, emergono le fragilità ma anche l’umanità delle persone. Il tutto in modo molto contenuto, sobrio e trattenuto ma molto toccante. Aggiungiamo anche che se la figlia di Kafuku fosse vive, avrebbe la stessa età di Misaki e anche questo contribuisce al consolidarsi del legame.
Drive my Car è un film molto parlato e lento che cresce minuto dopo minuto e che si esalta sul grande schermo; tre ore intense che richiedono attenzione e concentrazione ma quando si entra nella storia, si rimane molto coinvolti. Ovviamente una parte fondamentale lo ha anche la rappresentazione teatrale di Zio Vanja di cui vediamo le prove e la messa in scena che risulta liberatoria per Yûsuke. Quello di Ryuske non è propriamente un film sul teatro quanto sull’animo umano che trova nuove ragioni di vita malgrado i pesanti segni che questa lascia. E con un finale molto simbolico da non perdere, che non spoileriamo per non rovinare la sorpresa. Presentato al Festival di Cannes 2021 dove non a caso ha vinto il meritatissimo premio per la miglior sceneggiatura.
Aldo Artosin
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