Howard commercia in diamanti e pietre preziose, possiede una gioielleria che è anche il centro delle sue attività più o meno lecite e cerca di gestire i precari equilibri della sua vita giostrandosi tra la famiglia, l’amante, i creditori e l’ossessione per le scommesse sportive. Quando dall’Etiopia arriva un opale di rarissima fattura da lui scoperto e acquistato direttamente dai minatori del posto, Howard si convince che il suo momento sia arrivato e si prepara a fare il colpo della sua vita.
C’è una frenesia nei personaggi che i fratelli Safdie eleggono come eroi delle loro storie che è al contempo la sintesi e la negazione di una certa visione dell’uomo comune dell’ultimo cinquantennio. L’uomo contemporaneo è l’indolente che si appoggia sulla propria mediocrità nella speranza di spuntarla da vincitore sugli altri; ma è anche colui che in un mondo che sembra offrirti tutto con uno schiocco di dita non riesce a darsi ragione di quella stessa limitatezza, e allora si mette a inseguire il caso consacrandosi a esso, giocando d’azzardo con la propria esistenza fino a negarne il limite ultimo, e avanzando nella tenue speranza che la fortuna, alla fine, decida di prendere le sue parti. Ma quando si punta forte c’è un grosso prezzo da pagare, e l’eroe-antieroe di Diamanti grezzi lo sperimenta sulla sua pelle ogni giorno quando tra vendite, baratti e scommesse avventate decide di farsi scivolare il denaro tra le mani, come se quelle banconote non fossero davvero il discrimine tra la vita e la morte. In questa corsa contro il tempo, contro il caso e contro la propria ragionevolezza c’è tutto il nucleo del nuovo film dei fratelli Safdie, che dopo le tinte più scure di Good Time tornano a raccontare la disperata lotta del perdente che, divorato da parte a parte da un’americanissima ideologia del successo, tenta di sottrarsi ad essa sfidandola fino all’ultimo colpo. Ma se nel precedente film il protagonista viveva una sorta di viaggio infernale in cui era la denuncia alla società ingabbiante la cifra principale della narrazione, con la vicenda di Howard è il soggetto in prima persona a esporsi nella sua tendenza autodistruttiva: il vortice di assurdità in cui questo piccolo e fallibilissimo personaggio è immerso scorre senza che allo spettatore sia data alcuna tregua, coinvolto in un ritmo asfissiante nel quale ogni tragedia possibile pare poter accadere da un momento all’altro. Le responsabilità delle sue scelte più avventate non vengono mai segnalate da stacchi narrativi o rallentamenti dialogici, tutto accade come se un destino fosse già stato scritto e al protagonista non fosse concessa altra opzione che accettarlo.
Ovviamente non è mai così, perché al di là di un fato apparentemente ineluttabile, la brama di realizzazione del protagonistafa leva sul sottile filo della propria mania di onnipotenza, propria del soggetto contemporaneo e qui resa nella sua versione più viscerale: quegli stessi interstizi di sangue e carne che vengono esplorati nella curiosissima scena della colonscopia iniziale e che poi si proiettano nelle crepe abbaglianti dell’opale attorno al quale gira tutta la vicenda. La scrittura dei due registi è dunque indiavolata ma mai superficiale, e non manca di una tagliente ironia quando si fa veicolo di battute folgoranti, che emergendo dal fluire infinito del parlato riescono a offrire un respiro più ampio rispetto al puro attaccamento alla contingenza dei fatti. Diamanti grezzi non si limita infatti a raccontare il completo spaesamento dell’uomo nel marasma della propria esistenza: non a caso i rarissimi momenti di pausa narrativa si modulano nei dialoghi con i personaggi che costituiscono il nucleo affettivo del personaggio, il quale si sforza di ritagliarsi uno spazio per loro e tenta di occuparlo nella maniera più adeguata possibile. I risultati sono per lo più esilaranti, nel fingere naturalezza Howard è sempre una parodia di se stesso, e il suo essere costantemente sopra le righe è in qualche misura anche la cifra di un americanismo immerso, anima e corpo e fino alle soglie del nulla, nell’inseguimento del suo sogno; nella sottilissima contrapposizione tra Howard e il cestista Kevin Garrett si gioca infatti il contributo più raffinato dei due registi, che sberleffano il proprio protagonista mostrandoci come a un sistema che funziona con due pesi e due misure si possa affiancare una Fortuna egualmente crudele e vendicativa: l’opale – che è poi anche uno dei ‘diamanti grezzi’ del titolo – ne rappresenta il feticcio, e se nelle mani di Garrett diventa pietra filosofale e garanzia di vittoria, in quelle di Howard ha degli effetti a dir poco catastrofici.
In questa sorta di schizofrenia tra una sorte che è insieme fatta e subita il lavoro più grande lo compie un enorme Adam Sandler, calato finalmente nei panni del personaggio che merita e brillantissimo nell’interpretare un uomo comune che nello strazio del quotidiano lotta per raggiungere una meta promessa e sempre negata. Tutto il dramma del suo Howard risiede infatti nel convincersi di essere sempre un passo avanti al mondo trovandosi, nella realtà dei fatti, almeno un paio di passi indietro rispetto al destino che quella stessa realtà gli ha preparato. Al di là degli esiti dei propri sforzi è dunque il perseverare nella lotta ad assumere il valore centrale all’interno di un’esistenza votata all’insuccesso: credere nella propria buona stella fino alla fine, provare a piegare il destino alla propria verità; riconoscendo però, man mano che il gioco si fa più duro, che sotto la chimera del successo a tutti i costi è probabilmente l’identità e la consistenza del proprio stesso volto che in fondo si stava cercando nell’affannata corsa della vita…
Letizia Cilea